Yattaman: Takashi Miike colpisce ancora con la sua follia anarchica ed esplosiva!

Takashi Miike, regista nipponico autore dei sanguinosissimi Ichi the Killer, Izo, Audition, dei folli Visitor Q, Gozu, ma anche dei fumettistici Zebraman e The Great Yokai War, è forse la persona più adatta al mondo per portare al cinema la trasposizione del cartone animato Yattaman.

Come i lettori più giovani si ricorderanno, tale cartone venne trasmesso durante gli anni 80 e grazie al suo successo collezionò infinite repliche, il che lo ha reso uno degli anime più amati dalla generazione dei quarantenni-trentenni-tardo ventenni (strano, tra l’altro, che non sia stato citato nel film Immaturi, che faceva della nostalgia per il periodo il suo cavallo di battaglia). La pellicola quindi era attesa con grande trepidazione da tutti gli appassionati e dai fan del regista più prolifico del mondo (83 film diretti in 20 anni di carriera).

Il film riprende la classica struttura episodica del cartone, con tutte le ripetizioni del caso, le presentazioni dei personaggi, le lungaggini, i siparietti comici e via dicendo. La trama stessa della pellicola ricalca in pieno un episodio qualunque della serie, con la differenza che non si tratta di un episodio come tanti, ma potrebbe essere considerato un finale di stagione, il che implica la sconfitta totale del cattivo e la vittoria assoluta dei buoni.

Questa aderenza al modello originale non deve essere vista come un difetto, ma anzi un pregio (e non solo per i puristi), perché il film ne guadagna in freschezza, con mille trovate immaginifiche e un senso di divertimento e libertà creativa che non ha eguali nel cinema occidentale. Ovviamente non c’è un singolo istante in cui i protagonisti, il goffo e sfortunato Trio Drombo e i due Yattaman, con rispettivi robot al seguito, si prendono sul serio e molteplici sono gli sguardi in macchina, gli ammiccamenti, le strizzate d’occhio verso il pubblico. Simpatico omaggio alla serie originale è la presenza in scena dei doppiatori originali giapponesi, di cui il Trio Drombo riconosce stranito le voci, mentre per la versione italiana non sono purtroppo stati chiamati gli storici interpreti che molti avrebbero apprezzato.

Visivamente il film si presenta piuttosto bene, con un continuo ricorso alla computer grafica, al chroma key e agli effetti speciali in genere: per aumentare l’effetto di “fumettosità” non esiste alcuna preoccupazione di rendere credibili o realistici tali effetti stilistici, ma al contrario vengono esibiti in tutta la loro artificiosità. Questa scelta è un po’ un marchio di fabbrica del regista, ma in questo caso è particolarmente azzeccata perché aumenta il tasso di follia e di anarchia di quello che fondamentalmente è un carrozzone del circo, colorato e ridicolo, che non ha la benché minima volontà di impelagarsi in discorsi seri, ma è solo (e non è poco) un immenso veicolo di divertimento nostalgico.

Per quanto riguarda la trama c’è ben poco da dire: i due gruppi rivali sono alla ricerca di un oggetto misterioso in grado di bloccare il tempo, ma alla fine dovranno unire le forze contro un nemico comune. Il succo dell’opera non sta certo in quello che accade, ma nel modo in cui si accavallano gag, situazioni assurde, citazioni veloci e mai troppo insistite, combattimenti completamente fuori di testa ma allo stesso tempo coinvolgenti (buon ad esempio il lavoro di messa in scena durante le sequenze d’azione).

Detto questo bisogna ammettere che il film non è affatto un capolavoro, se preso singolarmente, ma neanche all’interno della filmografia del regista: il suo valore aumenta a dismisura se si conosce la fonte originale, mentre resta un sistema chiuso, incomprensibile e poco godibile per tutti coloro che ne sono estranei. Ci sono poi diversi momenti di stanca, piuttosto lenti, in cui succede poco o niente, che forse si sarebbe potuto gestire diversamente, anche considerando la lunghezza dell’opera (oltre i 110 minuti), forse eccessiva per un prodotto del genere. Altro motivo di possibile delusione è la recitazione degli attori, molto forzata e macchiettistica, sicuramente in linea con il tono generale dell’opera, ma che può essere uno scoglio per chi non è molto abituato ai film giapponesi.

In conclusione si potrebbe usare l’abusata formula “per gli appassionati e i fan”, anche se il sottoscritto crede che chiunque sia un po’ incuriosito dalla pellicola dovrebbe fare un tentativo, perché non solo si tratta di un’occasione molto rara (un film giapponese, e di Takashi Miike, in sala) ma è anche potenzialmente foriera di un bell’appagamento cinematografico.

Scritto da Style24.it Unit

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