Offside: il film del regista Jafar Panahi condannato in Iran

Recensione di Offside, il film per cui il regista Jafar Panahi ha perso la libertà in Iran. Scopri i dettagli su Blogosfere Spettacoli

Nella recensione di Poetry si diceva dell’egemonia americana e, in subordine, italo-europea in ambito di distribuzione cinematografica. Ma a volte ci sono dei fatti extrafilmici, tristemente e pericolosamente reali, che ci aprono l’orizzonte su altre cinematografie.

L’anno scorso al Festival di Cannes Juliette Binoche scoppiò in lacrime quando annunciò al pubblico che il regista iraniano Jafar Panahi, autore del film di oggi, Offiside, aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere stato imprigionato dal suo governo da almeno due mesi.

La motivazione? Non fu molta chiara, ma ciò che si seppe poi fu che il tribunale islamico di Teheran lo aveva condannato a sei anni di prigione “per aver girato film senza permesso e per aver agito e aver fatto propaganda contro il sistema”. Inoltre, al regista venne fatto divieto di scrivere sceneggiature, dirigere film, lasciare il Paese e rilasciare interviste sia all’estero che in Iran per i prossimi vent’anni. L’avessero seppellito vivo avrebbe più libertà, probabilmente.

Ma torniamo a parlare di cinema vero e proprio. Offside, pellicola del 2006, probabilmente è arrivata nelle nostre sale a causa di questi fatti. E sarebbe stato un gran peccato se ce la fossimo persa.

Il film infatti è una bella commistione di documentario e commedia, anche se dalle venature drammatiche, che prende come spunto di partenza il tentativo di alcune donne di intrufolarsi allo stadio durante la partita finale di qualificazione ai Mondiali di calcio di Germania, Iran-Bahrain. Alle donne infatti in Iran è prescritto andare allo stadio: questa in realtà è una legge non scritta, una convenzione, che dovrebbe salvaguardare il mondo femminile da contatti con maschi non affiliati al gruppo parentale, evitando loro di sentire improperi e urla sgraziate.

Il film è girato come se fosse un documentario trafugato, macchina a spalla e attori non professionisti; tuttavia, per vari motivi logistici e per una certa cura nell’aspetto visivo (la fotografia non è certo improvvisata) si nota come in realtà sia stato preparato con grande cura. In realtà il regista aveva ricevuto l’autorizzazione a filmare durante la partita, ma sottoponendo alla censura una sceneggiatura infinitamente meno spinosa.

L’aspetto più interessante, quello caratterizza l’opera, è che è girato praticamente in contemporanea con la partita, di cui si vedono alcuni istanti, e tutto lo svolgimento è dettato dal risultato. Il finale, che non si svelerà qui, avrebbe potuto essere assai diverso, nel caso l’Iran avesse perso.

Tema del film non è tanto la condizione della donna, che comunque viene esplorata in maniera indiretta, senza appelli didascalici, quanto piuttosto una panoramica delle diverse anime che compongono il Paese. Se coloro che violano la legge rappresentano le istanze più progressiste, i soldati però non sono assolutamente degli strenui difensori dell’ordine costituito. Questi giovani non fanno che ripetere di dover compiere il loro dovere per poter tornare a casa, per aiutare la famiglia a coltivare il proprio piccolo appezzamento di terra.

Nei dibattiti che si susseguono tra le due parti c’è una volontà di venirsi incontro, di conoscersi meglio, di capire le reciproche differenze ed appianarle che purtroppo viene frustrata da un Potere inumano, disincarnato, che non lascia scampo. I momenti migliori del film, i più commoventi, sono quelli in cui piccoli gesti fanno per un attimo balenare la possibilità di un’intesa forte, istantanea, calorosa tra prigioniere e soldati. Tutto ciò poi è enormemente amplificato dalla sensazione di pericolo, di insicurezza, di crisi immanente create dalle particolari condizioni di ripresa (si tratta pur sempre di donne allo stadio).

Potrebbe sembrare un film cupo, ma in realtà l’atmosfera è spesso rotta da situazioni buffe, motti improvvisi, e in genere quella vitalità che hanno gli attori non professionisti quando sono sorretti da un’ottima sceneggiatura come quella che struttura la pellicola.

Un film che davvero fa entrare nel cuore delle cose, nella realtà di un Paese di cui spesso si sa poco o niente, se non gli sviluppi più tragici. Un film per cui un regista ha pagato un caro prezzo, la libertà.

Scritto da Style24.it Unit

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