Festival Venezia 2011: A Dangerous Method, recensione

Recensioni dalla Mostra del Cinema di Venezia: A Dangerous Method e Un’été brulant. Segui il Festival su Blogosfere Spettacoli

E alla Mostra del cinema di Venezia, sessantottesima edizione, cade un altro dei grandi in Concorso. Dopo la prova non esattamente all’altezza delle aspettative (pur non trattandosi di un brutto film) di Carnage di Roman Polanski e l’aurea mediocrità di Le idi di marzo di George Clooney, ecco che anche l’attesissimo A Dangerous Method di David Cronenberg si è rivelato essere non solo il capolavoro sperato, ma neanche un film rispettabile nella ricca e corposa filmografia del regista canadese.

La pellicola tratta dei rapporti tra Carl Gustav Jung (vero protagonista dell’opera) e Sigmund Freud, e dell’invaghimento del primo per la sua paziente Sabina Spielrein, fondamentale per la consapevolezza dell’originalità del proprio approccio e per la nascita del metodo jungiano opposto a quello tradizionale psicoanalitico. Tra diffidenze professionali, rapporti sessuali perversi, gelosie e ricatti morali Cronenberg offre un piccolo trattatello storico sulla storia della psicoanalisi, sopratutto riguardo alle sue difficoltà nell’affermarsi come scienza riconosciuta (argomento usato da Freud contro le divagazioni mistiche dell’amico/erede/rivale Jung).

E purtroppo il regista questo solo offre al suo pubblico: una ricostruzione storica, accurata quanto si vuole, affascinante dal punto di vista luministico, ottimamente recitato dai tre attori protagonisti Michael Fassbender, Keira Knightley e Viggo Mortensen, tutti mostri di bravura.

Ma nonostante questi meriti il film non sfugge all’effetto docu-fiction, con la sua pretesa di informarci sulla psicoanalisi, sulle dispute interne e sulle diverse interpretazioni, attraverso i mille dialoghi che costellano la vicenda, dimenticandosi però di darci quel qualcosa in più che rende unica l’arte audio-visiva per eccellenza, ovvero il cinema.

Pare quasi che Cronenberg non sia più lo stesso che ha girato dei capolavori visionari come Videodrome, La mosca o anche il più recente A History of Violence, in cui, pur dando il massimo risalto possibile alla narrazione di una storia, portava avanti un discorso registico con un linguaggio ben definito.

In questo film invece pare che la sua unica preoccupazione sia stata quella di rendere la decifrazione di quanto accade il più semplice possibile, chiarendo e semplificando ogni immagine, castrando qualsiasi tentazione di ambiguità, forse perché ciò che davvero lo interessavano erano i personaggi del film, senz’altro ben definiti ma inerti se non inseriti in una struttura più grande che renda significativi i loro caratteri e i loro conflitti.

Visto anche il film “scandalo” Un’été brulant, di Philippe Garrel con Monica Bellucci e Louis Garrel. Di scandaloso non c’è davvero nulla, dato che una brevissima scena iniziale con la Bellucci che posa ignuda per il suo fidanzato non mi sembra niente di eclatante. Trattasi comunque di una pellicola onesta, dalle piccole ambizioni, ma che riesce bene a rendere l’atmosfera e lo stato d’animo d’abbandono di una borghesia artistica annoiata e isolata dal mondo, che investe tutto nel proprio lavoro e nell’amore.

Il regista mostra con crudeltà e partecipazione assieme cosa avviene quando questi due pilastri vengono a cadere, svelando il nulla che sostiene la vita dei suoi personaggi. Certamente non un capolavoro ma godibile.

p.s.
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Scritto da Style24.it Unit

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