Ebrei e Olocausto: come venivano vestiti i prigionieri

La terribile parentesi storica dell'Olocausto ha segnato il mondo intero. Tra simboli, divise e tatuaggi sulla pelle, i prigionieri erano "catalogati".

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra la Giornata della memoria. L’intento, importante ed estremamente necessario, è quello di ricordare tutte le vittime del terribile genocidio degli ebrei da parte delle forze naziste.

Lo sterminio, storicamente conosciuto come Olocausto, colpì tutte quelle categorie di persone ritenute dai nazisti inferiori. A confermare ciò, anche l’abbigliamento dei prigionieri.

Olocausto: come erano vestiti gli ebrei all’interno dei campi di concentramento

Tra il 1933 e il 1945 le vittime dell’Olocausto sono state circa 15-17 milioni e di questi milioni, circa 6 furono solamente ebrei. Come ormai ben si conosce, purtroppo, lo sterminio era stato organizzato ad hoc dai nazisti, pronti a portare alla morte persone considerate da loro indesiderabili e inferiori.

Una volta arrivati nei campi di concentramento, gli ebrei venivano divisi da famigliari: da una parte le donne e i bambini, dall’altra gli uomini. I prigionieri venivano suddivisi anche in base alla loro razza, alla loro religione e alle loro idee politiche. Ogni elemento era connesso a una determinata conseguenza.

Per fare questa inquietante divisione, i nazisti erano soliti utilizzare dei simboli appuntati sui vestiti in corrispondenza della parte sinistra del torace. Per gli internati di tipo politico, ad esempio, veniva utilizzato un triangolo rosso, per i malati mentali, per i senzatetto e per gli anarchici veniva applicato un triangolo nero. Gli omosessuali avevano cucito addosso un triangolo rosa, per Rom e popolazioni Sinti un triangolo marrone e per gli immigrati un triangolo blu. I criminali comuni erano contrassegnati da un triangolo verde, mentre per i renitenti alla leva tra cui i Testimoni di Geova il triangolo era viola.

E gli ebrei? Per loro l’identificazione avveniva attraverso l’applicazione della storica stella di Davide di colore giallo-oro e con la scritta jude.

Gli abiti tipici dei prigionieri sono quelli che ancora oggi si vedono in fotografie e vecchi filmati del periodo. All’atto della registrazione i deportati ricevevano degli abiti particolari di traliccio a strisce azzurro-grigio. Essendo ben visibili anche da lontano proprio a causa delle strisce, essi ostacolavano di molto eventuali fughe.

Gli uomini erano soliti ricevere una camicia, mutandoni, una blusa e dei pantaloni. Per la stagione invernale si distribuivano anche dei “cappotti” sempre a righe. Ai piedi zoccoli di legno o scarpe sempre più grandi o più piccole: con pioggia, neve e agenti atmosferici si usuravano e finivano con il lasciare i prigionieri scalzi. Gli uomini avevano anche dei berretti, ovviamente sempre a righe come il resto dell’uniforme.

I vestiti delle donne erano sostanzialmente uguali, con la differenza che a loro venivano distribuite gonne lunghe al posto dei pantaloni.

Considerando la situazione in cui i prigionieri erano costretti a vivere, viene da sé che anche l’elemento dell’igiene fosse assolutamente out. Le divise, infatti, venivano lavate molte poche volte. La pulizia dei vestiti era permessa solo a coloro che per motivazioni di lavoro erano in contatto diretto con le SS, terrorizzate dai pidocchi.

Le righe sono rimaste il simbolo per eccellenza dell’immagine dei prigionieri: nel bagaglio culturale mondiale, infatti, la divisa a righe è la prima immagine che salta alla mente quando si pensa e si parla di Olocausto e Shoah.

Scritto da Marta Mancosu
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