Esce abbastanza in sordina, senza grossi strombazzamenti un film che, comunque la si pensi dopo la visione, ha vinto un premio piuttosto importante, ovvero l’Orso d’argento speciale a Berlino, festival cinematografico che rifugge dai riflettori e dai lustrini, in effetti.
Scritto e girato dalla giovane regista Ursula Meier e interpretato dalla nuova stellina del cinema francese Léa Seydoux (già vista nell’orrido Midnight in Paris e intravista anche in Mission: Impossible 4), Sister – ovvero L’enfant d’haut – si avvale anche della partecipazione straordinaria di Dana Scully alias Gillian Anderson nei panni di una turista francese.
Questa la sinossi:
In una stazione sciistica sulle Alpi, Simon, un orfano di dodici anni, si mantiene derubando i ricchi turisti del posto e vendendo la refurtiva ai coetanei. Con quello che guadagna si prende cura anche della sorella maggiore, Louise, una giovane e affascinante sbandata con diversi amanti. Ma il rapporto tra Louise e Simon nasconde uno strano segreto…
Partiamo dalle parole pronunciate da Mike Leigh durante la consegna dell’Orso d’Argento Speciale:
“Sister è una riflessione poetica e appassionante sulla relazione tra due persone, splendidamente raccontata e ambientata con grande immaginazione nel panorama inusuale di una stazione sciistica.
Il film conduce un’analisi brillante del rapporto tra ricchezza e povertà ed è scritto e diretto in modo geniale da Ursula Meier. Le interpretazioni di Léa Seydoux e Kacey Mottet Klein sono formidabili“.
La pellicola in effetti risponde a una domanda che nessuno forse si pone, giustamente, ma è che è molto interessante: cosa succederebbe se l’amore dei nostri cari non fosse spontaneo, gratuito, scontato come lo prendiamo tutti i giorni? Se questo dovesse essere conquistato giorno dopo giorno con fatica e duro lavoro?
La Meier riprende dai fratelli Dardenne uno stile di ripresa ormai connotato e riconoscibile, quello della camera a mano appuntata sui corpi dei protagonisti – che però è arricchito e personalizzato da molti campi lunghi – e una scrittura drammaturgica molto fattuale, dedita alla descrizione dei comportamenti degli attenti più che alle spiegazioni.
La filiazione è diretta e inequivocabile, sarebbe inutile negarlo, e perciò forse parlare di “genialità”, coma fa Leigh, è eccessivo.
Resta però uno spunto iniziale molto buono, non valorizzato completamente da un film che si perde un po’ avvitandosi su se stesso, ripetendo in eccesso gesti e situazioni, e che forse confida troppo su un colpo di scena non proprio indimenticabile. Colpiscono, alla fine, alcune sequenze piuttosto dure e una relazione inusuale che potrebbe fare riflettere chi volesse prestare orecchio alle insinuazioni della regista…
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