Tutto sul nuovo film dell’attore trasformista Sacha Baron Cohen, in uscita il 15 giugno
Partiamo da un presupposto poco ortodosso: questa recensione sarà più utile a me che a voi.
(tutti col fiato sospeso per il colpo di scena iniziale)
Eh sì, perché la visione de Il dittatore, ultimo film della coppia Larry Charles – Sacha Baron Cohen, mi ha lasciato alquanto perplesso.
Piccolo excursus giustificativo ambientato sul terrazzo di una casa situata al Pigneto di Roma: ancora non troppo alticcio chiacchiero con delle mie amiche e confido il mio amore profondo per Roland Barthes, scrittore purtroppo scomparso, di cui sto leggendo La camera chiara.
Mi colpisce del suo stile e della sua forma mentis il modo in cui pone la propria soggettività (la propria inalienabile e necessaria soggettività) alla base delle riflessioni proposte nei suoi libri, come paradigma e metro ultimo della realtà che lo circonda e che tenta di analizzare, un modo ardito e coraggioso di mettersi in gioco intellettualmente.
Tornando al presente, una breve presentazione del film. Nata come una sorta di parodia dei dittatori mediorientali e non dei nostri tempi (Gheddafi, Ahmadinejad, Saddam Hussein), la pellicola trova al centro delle vicende Il Generale Ammiraglio Aladeen, leader supremo per via ereditaria della Repubblica di Wadiya. Ovviamente dispotico, ovviamente ignorante e rozzo, ovviamente omofobo, razzista, antisemita, maschilista e superficiale: insomma qualunque attributo negativo voleste attribuirgli Aladeen ce l’ha.
Incastrato dall’Onu che insiste per controlli su eventuali armamenti nucleari, il nostro dittatore si reca negli Stati Uniti per un confronto diretto coi rappresentanti del cosiddetto mondo civilizzato.
Ma non sa che proprio in casa gli si sta tendendo una trappola… da quel momento in poi la struttura diventa quella classica del personaggio infilato in un ambiente che non è il suo, con il quale si scontra a causa della diversità di valori, abitudine e prospettive: l’amore ci mette lo zampino, anche se Aladeen non è poi così propenso a cambiare il proprio stile di vita.
E dunque, quali sono queste fisime di cui mi devo lamentare? Sostanzialmente il tutto si risolve in una constatazione: in una sala piena di critici, persone conoscitrici di cinema e avvezze alla comicità di ogni genere (triviale, demenziale, surreale, sofisticata), mi sono sentito subissare dalla risate, nonostante sul mio volto comparisse solo ogni tanto un ghigno o la mia gola fosse non troppo frequentemente stimolata dal riso.
Pertanto la colpa, mi dico, è mia, non del pubblico impreparato (lasciamo perdere la supponenza di questa supposizione).
Eppure la comicità che vedo passare sullo schermo è frutto di un attore che conosce i tempi giusti, e si vede, che sa essere becero pur restando sempre sul filo del provocatorio – per quanto di cadute di stile ce ne siano, va detto – e che offre una prova di immedesimazione mimica e gestuale notevole.
Allora perché tante delle battute mi sembrano scontate, prevedibili, figlie di un immaginario fin troppo conosciuto e frequentato? La sfrontatezza di certi affondi comici mi dà l’impressione di un rimestare nel torbido che lungi dal sovvertire o dal provocare riflessione è diventato patrimonio di tutti, ed è quindi parzialmente anestetizzato.
Non basta, nel finale, istituire un’equivalenza tra la presunta democrazia americana e la dittatura, quando per tutto il resto della pellicola si è solo giocato con lo stereotipo del dittatore violento che cerca di inserirsi negli Stati Uniti del melting pot.
Ma a onore del vero va ribadito che Sacha Baron Cohen non propone un film pacificato, consolatorio o ipocrita: il suo protagonista rimane la canaglia che è all’inizio del film, sta a noi distanziarci dai suoi modi e dai suoi valori, anche quando ci suscitano tanta simpatia.
È una coerenza la sua, che non basta, almeno per quanto mi riguarda, salvare un film che avrebbe potuto seguire la strada di Borat, che fu un esperimento audace con il suo proporre spezzoni di fiction mischiati a situazioni reali.
Lì sì che la natura ambigua e polisemantica del reale si mostrava in tutta la sua forza, con effetti di spiazzamento, di ribaltamento prospettico e di sorriso amaro: a confronto col kazako, il dittatore Aladeen appare come un giullare stanco che inventa le proprie storie, piuttosto che svelare le deformità del suo re.
Ovviamente è solo un parere soggettivo. Ma anche fingendo di incarnare uno Sguardo Oggettivo non avrei potuto, ma neanche voluto, avere pretese di obiettività.
LINK UTILI
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