Un film dall’atmosfera raggelata, i cui colpi di scena sono facilmente intuibili, salvato dalla buona prestazione della Rapace
L’estate è davvero il momento in cui i distributori smaltiscono le scorte del magazzino, che siano o meno prodotti di valore non importa affatto.
Solo in questo modo posso giustificare l’uscita nelle sale italiane di Babycall, un film presentato al Festival Internazionale del Film di Roma dell’anno scorso, passato abbastanza in sordina nonostante la presenza quale protagonista di Noomi Rapace, che avrebbe poi vinto il premio come miglior interprete femminile nella stessa manifestazione.
Come già scritto in precedenza su Horror, la pellicola non è stata un gran successo sopratutto per la sua natura estremamente risaputa. Il thriller cavalca l’onda di molte opere simile provenienti dalla Scandinavia, in cui ritmo lento, atmosfere gelide, silenzi e rumori si fondono in un’esperienza al limite della narcolessia, in cui gli eventi sono pochi e non troppo significativi.
Un film dall’atmosfera raggelata, i cui colpi di scena sono facilmente intuibili, salvato – quasi – solo dalla buona prestazione della Rapace, che però è aiutata da una sceneggiatura che le chiede una recitazione molto sopra le righe e prive di sfumature.
Si vorrebbe suggerire molto con pochi elementi, ma si scivola spesso nello scontato perché il tutto è già visto e assimilato dalla coscienza dello spettatore più avvertito.
Questa la sinossi del film: Anna e suo figlio Anders si trasferiscono in un’altra città, in cerca di riparo dalla furia del padre violento. Anna diventa perciò progressivamente sempre più iperprotettiva nei confronti del figlio, impedendogli qualsiasi attività e sorvegliandolo durante la notte con un babycall, in preda all’ansia.
Durante una di queste sessioni d’ascolto, però, la donna inizia a sentire degli strani gemiti provenire dalla stanza di Anders, mentre un’inquietante presenza infantile inizia ad invadere la vita della coppia…
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