L’erede di Twilight ne segue purtroppo le tragiche orme
Dopo la pentalogia cinematografica tratta del suo ciclo di libri gotico-sentimental-vampireschi conosciuto con il titolo collettivo di Twilight, la scrittrice Stephenie Meyer era attesa al varco con la trasposizione del suo ultimo parto letterario, The Host.
Questa volta l’ingegno della romanziera ha abbandonato le tentazioni emo-fantasy e si è spostato sulle possibilità offerte dal genere fantascientifico. La notizia di questo slittamento di ispirazione aveva riscontrato l’interesse dei lettori più scettici, che si attendevano un risultato più maturo dopo le adolescenziali rasoiate sulle vene rappresentate dall’eterno tira e molla tra Bella, Edward e Jacob.
Il film tratto da The Host affidato allo specialista – sopravvalutato – del filone Andrew Niccol (Gattaca, In Time, S1m0ne) ci mostra, dopo un’introduzione che promette interessanti riflessioni sulla possibilità di un’invasione aliena pacifica e benigna, che la Meyer è sempre la stessa insopportabile adolescente innamorata pruriginosa, moralista ipocrita e bigotta, che sfoga con il dramma dell’indecisione le sue pulsioni evidentemente represse.
Ma facciamo un salto indietro ed esponiamo la trama dell’opera.
La Terra è ormai stata colonizzata da una razza extraterrestre chiamata “Le anime”, la quale per sopravvivere ha bisogno dei corpi degli esseri umani ovviamente ripuliti dalla coscienza di chi li abitava originariamente. Insomma, una specie di Villaggio dei dannati su scala globale, per chi si ricorda la vecchia pellicola horror.
L’aspetto potenzialmente intrigante della questione, però, risiede tutto nell’opera di pacificazione del Pianeta, riportato all’ordine e alla bellezza primigenia grazie alla superiore tecnologia dei suoi nuovi abitanti.
Il dilemma morale che sarebbe potuto essere alla base del film, dunque, è esprimibile con una semplice ma controversa domanda: è giusto che la razza umana, colpevole di molte offese verso se stessa e la propria casa, continui a voler vivere nonostante ci sia chi può prendere il suo posto in modo molto più responsabile e sicuramente efficace?
Il condizionale è d’obbligo, perché la sceneggiatura del film liquida l’interessante problema con un brevissimo cappello introduttivo: questo non solo spiega la situazione terrestre poco meglio di quanto l’abbia fatto io, ma non si premura neanche per un istante di fare vedere come sarebbe questo nuova edenica Terra, né la vita condotta dai suoi nuovi abitanti.
Tutto sulla fiducia, quindi.
Ciò che interessa al regista e alla Meyer, invece, non è nient’altro che la storia d’amore a quattro vertici rappresentati da Melanie, un’umana catturata membro di una piccola sacca di resistenza, Wanderer, l’aliena impiantatale con problemi di coabitazione nel corpo della terrestre, Jared, il fidanzato storico di Melanie, e Ian, il ribelle che Wanderer – poi Wanda – scopre di amare. A fare da patetico antagonista è una glaciale Cacciatrice che cerca di distruggere i pochi umani rimasti, interpretata da una Diane Kruger in apparente stato di paresi, mentre tutte le altre figure di contorno non hanno altra funzione che quella di far andare avanti la storia.
Ancora una volta una storia d’amore contorta, quindi, che ricalca in tutto e per tutto il modello di Twilight. Il pudore eccessivo che diventa inconsistenza drammaturgica, i palpiti del cuore al centro di una messa in scena altamente melodrammatica tanto da sfiorare la farsa, un trio di attori goffi, poco in parte e privi di chimica (in particolar modo l’altrimenti talentuosa Saoirse Ronan, che qui zoppica notevolmente in un doppio ruolo molto confuso), gli effetti speciali ridicoli nonostante il budget di un certo livello, la colonna sonora di canzoncine indie-rock per far colpo sul pubblico più giovane, il totale immobilismo di una trama che si attorciglia su se stessa dopo una trentina di minuti sotto il segno di un misto di sensi di colpa e attrazioni fatali.
Sono tutte le difficoltà narrative che affliggevano i 5 episodi di una delle saghe più fortunate di tutti i tempi. Naturale che chi ha prodotto il film abbia voluto mantenere intatta un’impostazione gradita alla turba adolescenziale che strepita per le scene d’amore e se ne frega giustamente del resto.
Si tratta però di una scelta molto meno adatta a tutti coloro che al cinema pretendono una storia perlomeno coerente e affascinante, con uno sviluppo narrativo che non eviti qualsiasi conflitto, che non sia un insulto all’intelligenza dello spettatore e che magari non costituisca il riflesso pedissequo dell’isolazionismo mormone della Meyer e del suo culto per la ricchezza esibita in modo sfacciato (automobili e aerei cromati nel deserto, scenografie urbane minimal di lusso).
Nota di biasimo anche per Niccol, che avrà incassato il suo ricco assegno senza fiatare e presentandosi sul set un giorno sì e tre no. Interlocutorio invece il finale, che dapprima sembra lasciare spazio a un seguito, mentre sui titoli di coda parrebbe misericordiosamente chiudere del tutto la faccenda dell’invasione (indice di come le parti più problematiche e cinematografiche dell storia avvengano fuori campo o siano raccontate da terzi, rendendo praticamente inutile l’intera narrazione).



