È uscito oggi nelle sale cinematografiche The Grey, con il solito ritardo abissale che ormai contraddistingue la distribuzione italica.
Diretto da Joe Carnahan e interpretato da un gigantesco, mastodontico e intensissimo Liam Neeson, il film è stato un piccolo caso negli Stati Uniti, dove ha raccolto incassi molto buoni durante i primi giorni di programmazione.
Si tratta del classico caso di opera di genere che, per una serie di fortunate circostanze, riesce a toccare delle corde estranee a quelli che forse erano gli obiettivi prefissati in partenza.
Si racconta di come un aereo che dovrebbe portare a casa dei lavoratori di un oleodotto precipiti in una zona disabitata e molto selvaggia dell’Alaska. I superstiti, capeggiati dal carismatico e inquieto Ottway, dovranno fronteggiare il gelo, le asperità della natura e sopratutto un branco di lupi ferocissimi che vuole proteggere il proprio territorio.
Come già detto gran parte della riuscita della pellicola (una sorpresa, bella e soddisfacente, ma non un capolavoro in toto) poggia sulle solide e un po’ curve spalle di Liam Neeson, qui forse nel ruolo della vita.
Contribuisce la singolare coincidenza che unisce personaggio e attore, e che amplifica esponenzialmente la sua performance. Entrambi infatti sono tormentati dal ricordo della moglie morte (per Liam si tratta di Natasha Richardson, scomparsa in seguito a un banale incidente sciistico), lacerati da un dolore atroce che porta a pensare persino a considerare il suicidio.
Vediamo infatti nelle prime sequenze che il protagonista si sta preparando proprio al gesto estremo, ma poi qualcosa gli fa rimandare la soluzione finale.
Per il resto del film la sua è una lotta non solo per la sopravvivenza ma anche un modo, l’unico possibile, per dare un senso a un’esistenza che sembra averlo perso.
Si tratta sicuramente e senza ombra di dubbio di un film d’azione, del sottogenere “sopravvivenza in ambienti ostile”, nel quale vengono affrontati con metodica precisione tutti i topoi del caso: disperazione, diffidenza iniziale, formazione di un team, primi successi, difficoltà e morti progressive.
Ma c’è qualcosa in più che fa brillare The Grey di luce propria.
È un’atmosfera tesa, plumbea, quasi metafisica, ben ricreata visivamente attraverso ll’ottima fotografia del giapponese Masanobu Takayanagi, interrotta solo occasionalmente dalle battute dei compagni scampati alla sciagura aerea. Questi ultimi sono poco più che macchiette e solo un paio si elevano davvero a personaggi, schizzati con qualche pennellata veloce e non particolarmente efficace.
La pellicola è allora tutta racchiusa nel triangolo formato da Ottaway, la natura circostante e i lupi: la domanda esistenziale del perché di tutte le cose viene riflessa e si infrange contro uno sfondo paesaggistico altero, traboccante di bellezza, maestoso, inquietante e ostile allo stesso tempo; ma questa domanda non può essere risolta se non nel conflitto, in primo luogo con se stessi, e nella “buona lotta” della poesia che recita il protagonista prima dell’ultimo e decisivo combattimento.
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