Ritorna il gruppo di contestazione tutto al femminile che sconvolge la Russia
Un gruppo di ragazze vestite con sgargianti colori fluorescenti e dei passamontagna altrettanto variopinti. Sullo sfondo un paesaggio industriale con alcuni macchinari in funzione – si indovina trattarsi di una serie di trivelle atte al prelievo petrolifero.
Rumori metallici ritmati. Una ragazza ha iniziato a prendere a martellate il rubinetto di un tubo. L’elemento cede e nell’inquadratura successiva si assiste a un potente sbuffo di gas.
Parte così Like a Red Prison, l’ultimo brano/provocazione politica delle Pussy Riot, la band russa tutta al femminile famosa per la sua violenta opera di contestazione nei confronti del Presidente Vladimir Putin, della Chiesa Ortodossa locale e della società sovietica in generale. La canzone è un’efficace mitragliata in pieno stile punk-metal d’assalto, anche se non del tutto tradizionale: chitarre cadenzate e poi ruggenti, voce al vetriolo, urla selvagge, batteria propulsiva e basso melodico e pensoso.
Ma è il testo, naturalmente, che vuole catturare l’attenzione. Si descrive una Russa che assomiglia alla prigione rossa del titolo, in mano a un leader politico equiparato a un Ayatollah iraniano, a una Chiesa che viene avvicinata a quella degli Emirati Arabi e a un’oligarchia petrolifera cui viene permesso tutto, rappresentata da Igor Secin, famigerato presidente della compagnia energetico Rosneft, per la maggior parte appartenente al governo. Proprio contro un ritratto rotante di Secin le Pussy Rioy furenti lanciano schizzi di olio nero.
Non mancano le invettive dirette (“Verme omofobo, fuori dalla storia!” e “Fottuto sessista malvagio, lascia stare questo buco“), così come i riferimenti all’attualità del Paese come del mondo: si fa riferimento al contestato tentativo di inserire un dipartimento di teologia in un famoso istituto di fisica nucleare, alla possibilità di incarcerazione di uno dei leader dell’opposizione, Alexei Navalny, candidato sindaco a Mosca, nonché un piccolo tributo al presidente venezuelano (“Hugo Chavez vive“).
Tra le immagini proposte dalle Pussy Riot c’è anche un’evirazione come quella che occorre al personaggio di Gérard Depardieu in L’ultima donna di Marco Ferreri, indimenticato maestro cinematografico del grottesco. L’attore francese è da molti mesi al centro delle polemiche per la sua decisione di prendere il passaporto russo allo scopo di pagare una quota fiscale inferiore rispetto a quanto dovrebbe sborsare nel Paese natio.
Like a Red Prison, infine, potrebbe anche riferirsi alla pena di due anni di detenzione che le attiviste del gruppo Maria Alekhina e Nadezhda Tolokonnikova (Yekaterina Samutsevich è stata risparmiata in appello) stanno scontando per avere cantato un inno “blasfemo”sull’altare della Cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca.
Una delle componenti del gruppo, che si fa chiamare comprensibilmente solo Grelka, ha affermato quanto segue riguardo agli obiettivi del collettivo e alla scarsa fiducia nei propri compatrioti: “Il messaggio principale è che Putin ha distribuito la ricchezza del Paese tra i suoi amici. In Russia forse l’1% ci supporterà, perché la società in genere non è molto interessata alla politica, nonostante eventi come quelli della piazza Bolotnaya. Paragonarci all’Occidente è una barzelletta“.
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