Never Say Never: Justin Bieber in 3D!

Never Say Never: scopri l’orrore dietro Justin Bieber, su Blogosfere Spettacoli

Lavorare per Blogosfere sembra bello, mi immagino cosa potete pensare: vai a vedere i film, ti pagano, fai la bella vita, incontri Anita Caprioli, le porti le rose. Ma, non c’è rosa senza spina: ogni tanto capitano degli abomini filmici cui non ci si può sottrarre, per onestà intellettuale.

Never Say Never, docu film in 3D su Justin Bieber, è uno di questi. Io sinceramente non lo conoscevo prima di andare al cinema, ma ho scoperto che è un cantante che fa impazzire tutte le ragazzine, e pure le donne, nonostante la sua giovane età di appena sedicenne, il fatto che abbia una faccia da schiaffi e una voce non particolarmente aggraziata (eufemismo pietoso).

Docu film, si è detto, ma in realtà l’opera è molto più un mega spot. Sin dall’inizio infatti è evidente l’intento celebrativo; diversamente non penso si potesse fare, visto che il nome del cantante figura tra i produttori.

E dunque, di che parla questo Never Say Never? Di nulla, in pratica: o meglio, ci racconta la storia dei sedici anni di vita del cantante, da quando era un bambino con un grande talento per la batteria (che avrebbe dovuto assecondare) fino al suo concerto epocale al Madison Square Garden, a quanto pare il gotha della musica pop, attraverso filmati di Youtube, spezzoni di repertorio e interviste a membri del suo staff e familiari. Vi domandate cosa dicono? Rispondo subito: quanto è bravo, quanto è bello, quanto si sia meritato il successo e quanto siamo felici di rendere felici i fan che ci rendono felici con i loro dollaroni. Quindi riprendo quanto sopra: parla di nulla.

Sostanzialmente, infatti, si tratta di un film inutile: chi è già fan se lo rivedrà più e più volte, nonostante molte informazioni e molti filmati siano già disponibili, spinto dal fanatismo; chi non lo è non può che essere disgustato e annoiato da questo circolo vizioso generato da produttori, discografici che stanno dietro il progetto e da tutto il mondo dello show business in generale (disco-film-gadget-concerto-nuovo disco essendo il percorso più semplice da descrivere).

Ciò che di più interessante trapela da questo documento visivo riguarda appunto la società americana e quindi anche la nostra, in chiave minore. Si prenda ad esempio il pubblico di sostenitori di Bieber: sono sopratutto ragazzine piccolissime, meno che adolescenti a volte, che hanno delle crisi isteriche e si producono in discorsi da nevrosi tipica forse di un trentenne. Sentire una bambina di cinque anni dire con pieno convincimento che non può vivere senza il suo idolo, vederla piangere calde lacrime per Justin, proprio come farebbe una teenager fatta e compiuta, ci fa intendere quanto successo abbia avuto un certo consumismo nel renderci tutti dei consumatori, degli utenti, dei follower di un certo prodotto.

Non esistono più bambini perché i bambini non consumano, e quindi ecco giovanissimi adolescenti, con tutte le necessità e i desideri indotti del caso, ovvero quelli che generano ricchezza. Ai bambini non si vende più il divertimento, la fantasia immaginifica, lo svago, ma il concetto dell’amore, o meglio l’ossessione amorosa per qualcuno che canta di qualcosa che probabilmente non conosce affatto (non mi stupirebbe scoprire che i testi di Bieber sono creati a tavolino secondo ricerche di marketing).

Altro punto interessante: l’ossessione per il successo, questa volte da parte del cantante, ma molto più evidente nel suo staff. Non c’è altro nella vita di questo poveretto, tutto è finalizzato a dare il massimo per poter vendere di più: la qualità della propria vita è data dal numero di copie vendute dall’ultimo album. Addirittura l’improvviso venire meno della sua voce, comprensibile se messo in relazione a un tour inumano, viene dipinta come una tragedia: lacrime, disperazione, la delusione dei fan non lascia scampo e niente pare avere più senso, sembra che cancellare una data equivalga a sganciare una bomba atomica.

Verrebbe voglia di alzarsi dalla sedia del cinema e, probabilmente spinti dall’efficacia del 3D (forse l’unico elemento che si salva nel film), cercare di fare avvicinare le nocche della propria mano alle guance del ragazzino: non tanto per colpire lui, ma tutto il mondo di cartapesta che domina la sua vita e quella di coloro che lo idolatrano.

Personalmente ciò che Never Say Never mi ha lasciato è stata una gran voglia di rivedere Le luci della sera, di Aki Kaurismaki: citando un mio amico, il regista finlandese ci mostra come si perde, come si affronta la vita anche quando ci ha assegnato una mano perdente. Forse questa è una lezione necessaria in un mondo in cui vincere pare essere l’unica chance per esistere.

Scritto da Style24.it Unit

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