Hereafter di Clint Eastwood: un’occasione sprecata per mancanza di coraggio

L’ottantenne Clint Eastwood, dopo una carriera passata a considerare il tema solo in maniera tangenziale, prende ora di petto lo spauracchio della morte, costante dei suoi film, variamente rappresentata ma sempre affrontata in maniera stoica dai suoi personaggi (si pensi a Gran Torino, Honkytonk Man, Million Dollar Baby o Flags of Our Fathers).

Hereafter, scritto dallo sceneggiatore Peter Morgan, già autore di The Queen e Frost/Nixon, propone infatti una riflessione sulla vita oltre la morte, ma soprattutto sulle difficoltà e le possibilità di rielaborazione del lutto cui ci si deve sottoporre in seguito alla perdita di una persona cara.

Il film, pur prendendo leggermente posizione (o perlomeno non facendola smentire da alcun personaggio) sull’esistenza di un aldilà, è molto più interessato al “di qua” – “here after” potendosi tradurre letteralmente come “qui dopo”- ovvero al mondo dei viventi e alle loro domande riguardo l’esito finale dell’esistenza.

Per svolgere questo delicato tema Eastwood intreccia tre storie diverse, che alla fine si incontreranno a Londra: nella prima Marie, una giornalista francese in vacanza in Thailandia (interpretata da Cécile de France, già vista in Alta tensione e Bambole russe), viene colpita dalla furia dello tsunami – siamo quindi nel 2004 – e vive un’esperienza di quasi morte, ovvero viene rianimata mentre già sembrava spacciata; nella seconda Matt Damon è un sensitivo americano, ormai ritiratosi dall’attività per la difficoltà che tale professione gli causa nel condurre una vita normale; nella terza James è il più giovane di una coppia di gemelli inglesi che cerca di impedire ai servizi sociali di separarli dalla madre tossicodipendente, ma un tragico incidente dividerà per sempre anche i due fratelli.

Come si vede, nelle vicende raccontate è prevalente il tema della perdita, non solo in termini di morte, ma anche di infelicità o di difficoltà nell’adattarsi ad una vita solitaria; invece la tanto sbandierata, dalla stampa, ipotesi di un aldilà è sicuramente al centro della trama, ma non al centro del discorso che vuole portare avanti il regista, al quale preme sopratutto analizzare in che modo i vari personaggi reagiscono all’esperienza della morte, che sia diretta, indiretta o condivisa (quando muore il Marcus, il fratello di James, è come se il secondo perdesse una parte di sé).

La rappresentazione dell’aldilà non è poi particolarmente insistita: viene raffigurato come un regno delle ombre, cui il medium Matt Damon può avere accesso solo per qualche istante; in questo senso le discussioni riguardo al credo religioso di Clint Eastwood lasciano il tempo che trovano, dato che, se si vuole trovare un significato nel film, questo può essere sintetizzato nella necessità di credere in qualcosa, che sia un’umanità intesa nel senso di solidarietà o la certezza di non avere perso davvero le persone care.

In tutto ciò, però, il film si impantana in vari livelli: le tre storie, prese singolarmente, sono mediamente interessanti, si lasciano vedere ma non diventano mai incisive; lo stile di Eastwood, classicissimo, asciutto, anche un po’ rigido, non graffia mai, se non nella sequenza iniziale dello tsunami (un bel saggio di cinema sensoriale, con la camera da presa fissa tra i flutti dirompenti le mentre tutto attorno accade il caos). Il vero cuore del film, ovvero la confluenza delle tre storie, arriva troppo tardi, quando ormai la pellicola si avvia alla fine, come se improvvisamente qualcuno avesse deciso di riparare alla sofferenza subita dai personaggi. C’è qualcosa di artificioso nel modo in cui il film finisce, mentre per più di tre quarti del film si è pensato più volte che le storie girassero su se stesse, fondamentalmente a vuoto.

Viene da credere che se si fosse osato di più in termini di messa in scena, con delle scelte più coraggiose e innovative, o se comunque si fosse riuscito ad affrontare le tre vicende in maniera diversa (istituendo dei paralleli o facendole incontrare prima) forse il film sarebbe potuto divenire un classico sull’argomento. Così com’è appare una bella occasione sprecata, soprattutto per via di un cast piuttosto interessante, con una serie di facce anonime, quasi dimesse, che trasmette bene lo stile povero ed essenziale dell’opera.

Scritto da Style24.it Unit

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