Ospite d’onore del Giffoni Film Festival, la manifestazione cinematografica dedicata alla filmografia per i più giovani, il celebre pianista e compositore Giovanni Allevi non ha mancato di esibirsi nel suo ormai classico show costituito da un misto di ingenuità (costruita o spontanea?), vittimismo e megalomania.
Descrivendo il proprio rapporto con la musica, e immergendosi in un discorso di stilistica e poetica personale, il riccioluto e sbarazzino conquistatore delle classifiche di vendita ha raccontato un aneddoto fondamentale per la comprensione del suo percorso artistico:
“Un giorno ho capito che dovevo uscire dal polverone e cambiare approccio con la musica, anche se si trattava di quella classica.
Stavo ascoltando a Milano la Nona Sinfonia di Beethoven e accanto a me c’era un bimbo annoiato che chiedeva insistentemente al padre quando finisse.
Credo che in Beethoven manchi il ritmo. Con Jovanotti, con il quale ho lavorato, ho imparato il ritmo. Con lui ho capito cos’è il ritmo, elemento che manca nella tradizione classica. Nei giovani manca l’innamoramento nei confronti della musica classica proprio perché manca di ritmo.“
Sarebbe del tutto inutile star qui a baccagliare sulla pertinenza o meno delle osservazioni del musicista (7 album in studio al suo attivo) e a osservare l’inutilità e la scorrettezza storico-estetica di un paragone tra il titano tedesco e il cantautore italiano: si tratta in fondo di convinzioni personali che lo hanno portato a essere apprezzato da una vasta fascia di pubblico e come tali vanno prese.
A colpire invece sono le dichiarazioni successive di un autore che per dare lustro alla propria musica, un leggerissimo e innocuo pop orchestrale, si è appropriato del termine di Musica Classica Contemporanea. Come se quei motivetti orecchiabili e cantabili potessero davvero essere i segni di una rifondazione estetica e non il risultato di una semplificazione (e banalizzazione) strutturale e armonica della materia sonora.
Punti di vista, lo ripetiamo. Ma se la scelta artistica è consapevole – e di sicuro non può non esserlo – perché allora piangere miseria, denunciare la depressione in cui l’hanno fatto cadere le critiche degli esperti, e indulgere sempre in un vittimismo che cerca la propria giustificazione in un atteggiamento da maudit che ad Allevi proprio non si addice?
Sempre al Giffoni si è infatti parlato dell’ostracismo con cui il pianista verrebbe accolto in molti tempi della musica italiana:
“Non posso entrare in molti Conservatori italiani.
Mi dispiace ricevere a volte le contestazioni degli studenti che li frequentano, mi dispiace sapere che non potrò varcare le loro porte, ma so che la cosa importante è raggiungere il cuore della gente. Lì la mia musica può entrare. Mi ha fatto male sapere che persone autorevoli mi consideravano un impostore.
La musica è una strega capricciosa, una donna bellissima che mi regala una manciata di note e poi fugge via. Bisogna essere dei dannati per scrivere una musica come quella che compongo io.
Per me la musica è una questione di vita e di morte, è qualcosa che mi sconvolge e mi fa dannare“.
Il commento più appropriato sulla questione è stato quello di Saturnino, storico bassista di Jovanotti, il qual in un tweet rivolto proprio all’amico ha così scritto:
“Caro Giovanni Allevi, il buon Ludovico Van non era un paraninfo, Tu sì 😉“.
Paraninfo: ovvero “sinonimo di ruffiano e leccaculo“, spiega ad alcuni follower l’artista delle quattro corde. A noi invece piace di più il termine “paraculo“.
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