Stoker: trailer trama e recensione del film con Nicole Kidman

Ennesima ottima prova del regista sudcoreano

Lo aspettavamo tutti al varco, Park Chan-wook, a causa di quella che storicamente è una delle mosse più azzardate per un cineasta orientale: la trasferta americana. E invece l’autore della stimatissima Trilogia della vendetta, ma anche di Thirst e Joint Security Area, è riuscito a convincere tutti con un film che, nonostante non sia stato da lui scritto, reca evidenti i segni e le ossessioni del suo cinema.

Il coreano firma infatti solo la regia di Stoker, un progetto che inizialmente faceva parte delle famose Black List di Hollywood, ovvero le sceneggiature molto promettenti che per un motivo o un altro non sono riuscite a trovare un produttore sufficientemente interessato.

La fortuna ha voluto che lo script di Wentworth Miller, attore conosciuto per il suo ruolo da protagonista nel serial Prison Break, dopo un lungo processo di selezione sia arrivato tra le mani di Park, il quale ha scelto poi Nicole Kidman, Mia Wasikowska e Matthew Goode come attori principali di una storia che sta a metà tra il dramma famigliare e il thriller orrorifico.

La trama prende avvio proprio il giorno del diciottesimo compleanno di India, una ragazza silenziosa, introversa ma singolarmente determinata e molto attaccata al padre, che però sembra non sopportare la presenza della madre Evelyn. India tuttavia non fa in tempo a soffiare le candeline della sua torta, perché una notizia terribile sconvolge la festa: il genitore adorato è morto in un incidente stradale.

Le donne rimarrebbero dunque le sole occupanti della grande casa in cui vivono (gestita dalla governante di famiglia, la signora McGarrick), se non fosse per l’arrivo dello zio Charlie, fratello perduto – o così si credeva – del defunto.

Quest’ultimo si insinua lentamente nella vita del nucleo, conquistando immediatamente la vedova Evelyn ma scontrandosi con l’iniziale diffidenza di India. La situazione non è destinata a durare, perché il nuovo arrivato ha in programma di sconvolgere gli equilivri interni alla famiglia…

Stoker è un film che, proprio come lo zio Charlie di hitchcockiana memoria (L’ombra del dubbio è richiamato varie volte nel corso della pellicola), si prende tutto il tempo necessario per scoprire le carte a disposizione, rappresentate dai misteri della storia privata degli Stoker (e anche questo nome richiama, solo per certe atmosfere gotiche, l’autore di Dracula).

Park Chan-wook sceglie inizialmente un ritmo molto lento e pacato, che va aumentando via via che le rivelazioni si susseguono, per fare in modo che allo spettatore entri sotto pelle la sensazione di estraneità e incompiutezza che emana la giovane India. L’opera infatti è facilmente descrivibile come la maturazione e la presa di coscienza di sé che la ragazza compie grazie al trauma della morte del padre e alla comparsa dello zio, nonché attraverso l’aperta conflittualità che si instaura tra madre e figlia.

Come suo solito si lavora di cesello e per far sì che la narrazione venga veicolata principalmente dall’apparato audio-visivo piuttosto che dai dialoghi vengono curati in maniera ossessiva i mille dettagli di cui è costellata la sua opera, un vero e proprio capolavoro dal punto di vista tecnico e stilistico.

Raffinatissimo e incisivo l’uso delle metafore, ad esempio, come quella del regno che sale lungo le gambe di India o il vino che gli Stoker bevono a cena, supportate da un eccellente contrasto cromatico (fotografia del collaboratore abituale Chung-hoon Chung) che accentua alcuni colori a scapito di altri. Tra questi naturalmente – giacché per far sbocciare l’adolescente c’è bisogno di molta violenza – grande risalto ha il rosso del sangue, che proprio nel finale andrà a macchiare un campo fiorito.

Teso e carico di un’atmosfera sottilmente perversa e amorale, il film a volte sembra però frenato proprio dallo stile altissimo del suo autore, che gira quasi tutte le sequenze come se fossero delle scene madre. La qualità in fin dei conti è elevatissima, ma a risentire parzialmente di una simile cura formale è la fluidità della narrazione, in qualche modo compromessa da una certo ristagno dell’azione a favore della descrizione.

Ma si tratta davvero di un neo da poco, per un film che mette in scena una tragedia freudiana senza scadere mai nella didattica, nella piana esposizione dei fatti o nel ricatto sentimentale, con una forza che si sviluppa grazie al modo in cui Park riesce ad amalgamare la prova degli attori (eccellente la Wasikowska, trattenuta il giusto, seducente Goode, mentre resta più defilata la Kidman, costretta da un ruolo non troppo gratificante), le eleganti musiche della coppia Philip Glass – Clint Mansell e il proprio stile evocativo in una partitura polifonica di grande efficacia.

Scritto da Style24.it Unit
Leggi anche