Solo Dio perdona: trailer trama e recensione del nuovo film di Refn

Contestato e acclamato allo stesso tempo al Festival di Cannes, il regista danese torna al cinema con un’opera controversa

Se c’è una cosa che abbiamo capito seguendo la carriera cinematografica del danese Nicolas Winding Refn è che all’autore di Drive non interessa compiacere il pubblico regalandogli ciò che si aspetta e agogna, film dopo film.

Non è improbabile allora che sia stata una delusione cocente a spingere gli addetti ai lavori di Cannes a subissare di fischi l’ultima opera del regista, Solo Dio perdona – Only God Forgives, uscita oggi nelle sale italiane.

Non sarebbe una sorpresa, poiché, per quanto il linguaggio della pellicola prosegua il discorso affrontato con l’opera precedente, l’esito finale è del tutto diverso: si viene immersi infatti in un’opera ancora più rarefatta, atmosferica, surreale e del tutto priva di appigli emotivi.

Perché, insomma, diciamo per una volta la verità: Drive ha avuto il successo che ha avuto, e per di più presso un pubblico molto ampio, anche e sopratutto grazie alla storia d’amore disperata e impossibile che univa Ryan Gosling e Carey Mulligan.

Nessuno vuole negare l’importanza dell’aspetto tecnico-formale, ma bisogna riconoscere che, se applicato a un’altra storia, a un altro approccio narrativo o a un’altra idea, il film non sarebbe stato così amato e non sarebbe entrato prepotentemente nell’immaginario pop.

Con Solo Dio perdona, allora, Refn sterza decisamente rispetto all’orizzonte di attesa costituitosi e realizza così la sua opera più stilizzata e astratta, forse persino più del fallimento Fear X, unica macchia in un curriculum altrimenti lindo.

Prende come spunto un canovaccio da film di genere (western, noir, action… dite voi, è uguale), sceglie Bangkok come ambientazione e torna a collaborare con Gosling: il tutto per una “storia” che sembra parlare di vendetta ma che vuole andare a parare da tutt’altra parte.

Julian e Billy sono due fratelli che per conto della madre, capo di una famiglia mafiosa, si occupano di spaccio di droga in Thailandia. Il primo gestisce una palestra come copertura e ha una storia d’amore piuttosto bizzarra con una cantante, mentre il secondo passa il suo tempo con le prostitute.

Una notte Billy esagera e uccide una ragazza minorenne: la punizione di Chang (Vithaya Pansringarm), poliziotto in pensione ma in pratica giudice e boia incontrastato, è terribile ed efferata. Quando la madre Crystal (Kristin Scott Thomas) affida a Julian il compito di vendicare la morte del fratello viene innescata una spirale di violenza che si conclude in un modo assai strano…

L’esperienza cui dà luogo il film è quella di un lungo incubo psichedelico che si svolge perennemente nell’oscurità, rischiarata solo da inquietanti luci al neon, percorsa con tutta la lentezza e la maestosità di una marcia verso l’abisso da personaggi che si muovono come se vigesse una forza di gravità molto maggiore del normale e schiacciati da forze sulle quali non hanno alcun controllo.

L’attenzione di Refn è tutta focalizzata sulla creazione e il mantenimento di questa atmosfera, e ogni elemento formale concorre a esasperare la sensazione di galleggiamento, prima, e di inabissamento poi: quasi nulla, dunque, è la caratterizzazione psicologica di quelli che si possono definire personaggi solo usando un eufemismo, e allo stesso modo lo sviluppo narrativo è del tutto secondario rispetto allo stile (basta citare l’importanza ritmica e sensoriale delle musiche, ancora una volta affidate all’eccellente Cliff Martinez).

D’altro canto ben poco può fare il protagonista, che è l’anti-Driver per eccellenza: tanto quanto lo stuntman criminale era in grado di difendere l’amata con spietata efficienza e brutalità improvvisa, così Julian è il perfetto esempio dell’impotenza e dell’impossibilità di agire. Impotenza che si esplica in campi diversi ma collegati: sessuale, combattiva, esistenziale, famigliare. “La prima immagine che ho avuto, da cui poi è nato il film, era quella di qualcuno che si fissava le mani“, ha dichiarato Refn.

Alla base del film non c’è solo la tragedia greca, rinvenibile nell’ineluttabilità degli eventi e nella fissità dei caratteri, ma anche un complesso edipico gigantesco che impedisce a Julian di trovare la propria dimensione: terrorizzato dal confronto impietoso col fratello, da sempre preferito dalla madre, divorato dall’attrazione/repulsione/desiderio di ribellione nei confronti della genitrice (che si esprime un po’ troppo esplicitamente in una sorta di ritorno al ventre materno), il protagonista in realtà non agogna altro che una liberazione da se stesso e dal mondo.

E a chi altri chiederla se non a Chang, sorta di entità metafisica che incarna non la legge nella sua manifestazione materiale e approssimativa ma la Giustizia in toto? Autorità suprema, onnipresente e onnisciente, il poliziotto thailandese è una figura che incute soggezione e rispetto, una forza contro la quale Julian si scontra inutilmente finché non comprende cosa desidera davvero.

In questo viaggio nel labirinto di una mente precaria, che segue percorsi già tracciati da Jodorowsky (cui è dedicato il film) e Lynch, ma senza la furia visionaria del primo e la carica emotiva del secondo, Refn si fida troppo dell’apparato audio-visivo portato in scena: la composizione delle inquadrature geometriche e perfette, il rigoroso e sorprendente lavoro di illuminazione, un sound design curatissimo. 

Elementi che rendono levigatissima la superficie di un film volutamente freddo e astratto come le luci artificiali che ne illuminano i set: il cineasta rimane così in equilibrio precario tra l’espressione di un pensiero tramite immagini e l’esercizio di stile più autoreferenziale e ammorbante, tra il comico involontario (sopratutto nei dialoghi) e l’ironia sottile (ce n’è, invero), tra il fascino di personaggi misteriosi e l’ottusità di statue marmoree.

La pellicola insomma è destinata a dividere anche in sala: chi si interessa al cinema come arte in sé potrebbe rimanere ammaliato (ma non vi è sicurezza alcuna), mentre chi da un film cerca lo sviluppo compiuto di una storia molto facilmente rimarrà scottato, frustrato e deluso. Ciò di cui siamo certi, invece, è che dopo un exploit del genere Refn non potrà fare altro che cercare una nuova strada. Ma sarà all’insegna del solipsismo più spinto o avverrà un ritorno alla comunicazione?  

Scritto da Style24.it Unit
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