Vittoria meritata e significativa quella del film francese, che mostra la sensibilità politica di un Festival di Cannes che non teme di prendere posizione politica
Era stato ampiamente pronosticato sin dalla prima proiezione destinata alla stampa, e la voce era divenuta più insistente giorno dopo giorno fino a divenire realtà ieri sera, durante la cerimonia di premiazione della sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes: La vie d’Adèle (titolo-sottotitolo internazionale: Blue is the Warmest Colour) del francese di origine tunisina Abdellatif Kechiche ha vinto la Palma d’oro come miglior film.
Si è trattato quindi di un trionfo annunciato, quello del quinto lungometraggio del regista, giunto in questo modo alla consacrazione ufficiale. La storia dell’amore tra due ragazze poco più che adolescenti e la cronaca della maturazione di una di esse ha conquistato la giuria presieduta da Steven Spielberg, in virtù della grande capacità di realismo di messa in scena, evidente in modo particolare nelle scene erotiche portate sullo schermo integralmente e con dovizia di particolari.
Una scelta coraggiosa (pur se in linea con la tendenza festivaliera alla segnalazione di pellicole potenzialmente “scandalose”) che ha anche dei risvolti politici non indifferenti, arrivando dopo la contrastata decisione della Francia di regolarizzare legislativamente le unioni omosessuali e all’apertura alle adozioni. Contrasti ulteriormente amplificati dalle violente manifestazioni di segno opposto che stanno tenendo banco in questi giorni e dall’eclatante gesto dell’intellettuale Dominque Venner che si è suicidato sparandosi nella cattedrale di Notre-Dame.
Proseguiamo la ricognizione dei premi del concorso con l’assegnazione del Grand Prix Speciale della Giuria a Inside Llewyn Davis dei Fratelli Coen, l’ennesima parabola-elegia di un perdente, ancora una volta ancorata a un periodo storico e a un ambiente ben circoscritto, la New York della musica folk degli anni 60.
Un altro tocco di Francia è presente nell’attribuzione del premio come migliore attrice a Bérénice Bejo (la protagonista del celebrato The Artist), qui insignita per la sua prestazione in Le passè dell’iraniano Asghar Farhadi, cineasta al suo primo film non girato in patria.
La prima sorpresa è giunta dalla vittoria come migliore attore di Bruce Dern, co-protagonista di Nebraska di Alexander Payne: un film forse non eccezionale, in cui a spiccare è stata proprio la bravura del cast.
La seconda sorpresa è costituita dal Prix de la mise en scène (la miglior regia), dolorosa per l’Italia in quanto si pensava dovesse andare a La grande bellezza di Paolo Sorrentino: a riceverlo è stato invece il messicano Amat Escalante per il suo Heli, secco e brutale film di violenza domestica e politica che non ha risparmiato agli spettatori scene di tortura efferata.
Ancora un riconoscimento alla crisi della contemporaneità è affiorato dal Prix du scénario (miglior sceneggiatura) a Jia Zhang-ke per A Touch of Sin, pellicola a episodi che racconta dello stato di prostrazione economica ed esistenziale della Cina. Dopo la vittoria di Venezia con Still Life qualcuno ha pensato che Cannes abbia voluto incoraggiore il regista cinese a continuare sulla strada della narrazione più tradizionale, qui per la prima volta intrapresa con decisione da un autore che era conosciuto dagli addetti ai lavori per il suo sguardo contemplativo.
Ultimo ma non ultimo ecco il premio della giuria, che ha reso giustizia a Like Father Like Son del giapponese Hirokazu Kore-eda: sin dai primi giorni si è ritenuto che questa classica storia di uno scambio di bambini nella culla, cresciuti quindi dalle famiglie “sbagliate”, avrebbe potuto conquistare il cuore di Spielberg, e così evidentemente è stato.
Si è chiusa un’ottima edizione di Cannes che ha mostrato un cinema in ottimo stato di salute, merito anche del prestigio di quello che viene definito il migliore festival del settore. I cinefili però non dovranno aspettare molto per ritornare all’atmosfera competitiva, dato che a settembre sarà il turno della Mostra di Venezia, quest’anno graziata dalla presenza di Bernardo Bertolucci quale presidente della giuria.
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