In un mondo migliore: una riflessione intelligente sulla violenza e l’educazione

Il buon cinema d’autore arriva persino nella provincia romana, cosa credevate? Il film recensito oggi, infatti, è stato da me visto nel cinema Palma di Trevignano e, pensate un po’, l’unica altra sala che ha scelto di proiettarlo nell’intero Lazio è quella del celeberrimo cinema Sacher di proprietà di Nanni Moretti. Discorsi logistici a parte, In un mondo migliore (titolo originale: Hævnen, che tradotto letteralmente significa “vendetta”), recente vincitore dei Golden Globe come miglior film straniero e candidato nella stessa categoria agli Oscar, merita sicuramente di avere una distribuzione più ampia, trattandosi di un pellicola ben fatta, che solleva questioni molto interessanti, pur avendo alcuni difetti che andremo poi a vedere.

Il cinema danese si è distinto sempre, forse sotto l’influenza del nume tutelare Lars Von Trier, per la predominanza di temi sociali e per l’uso del dilemma morale quale motore primo dell’azione drammaturgica. L’opera di Susanne Bier, autrice passata dalle sperimentazioni del Dogma e delle mescolanze di generi ai film drammatici di stampo scandinavo, tratta due temi molto particolari, ovverosia la violenza e le sue ramificazioni e il distacco tra genitori e figli.

La storia gira attorno a Christian e Elias, due ragazzini che frequentano la stessa scuola. Il primo è appena tornato da Londra dopo la morte della madre, il secondo invece è preso di mira da un bullo, mentre i suoi genitori si stanno separando. L’amicizia tra i due nasce quando Christian, che è molto risentito col padre per il suo comportamento negli ultimi mesi di vita della moglie, decide di aiutare Elias con un gesto di violenza piuttosto forte. Nel frattempo, e per tutta la prima parte del film, il padre di Elias, Anton, lavora in un campo profughi in una località non specificata dell’Africa, venendo a contatto con gli orrori della guerra e dovendo infine risolvere il dilemma che prevede la salvezza o meno del personaggio artefice di questi orrori. Il desiderio di vendetta verso un uomo arrogante porterà invece Elias e Christian ad una situazione dagli sviluppi imprevisti e drammatici, con uno scioglimento finale delle problematiche famigliari e personali di tutti i protagonisti del film.

Il discorso che il film porta avanti riguardo alla violenza è estremamente interessante e ben messo in scena, sopratutto grazie alla buonissima prova degli attori bambini. Ad un livello superficiale mostra come la violenza generi altra violenza in una spirale di sopraffazione. Tuttavia la prospettiva si amplia quando si scorge ma anche come la violenza sia radicata nella società e nell’umanità stessa: i due esempi limite (la follia omicida di Big man e l’apatia dei due genitori, frutto di una società progressista e moderata quale quella danese) evidenziano quanto nel rapporto con l’Altro non sia possibile sfuggire da un inevitabile scontro, che ovviamente deve basarsi sul mutuo rispetto; allo stesso tempo, però, il metodo della non violenza, per quanto paghi a livello personale, difficilmente fa presa sui figli di Anton, mentre la soluzione violenta di Christian, per quanto deprecabile, porta effettivamente ad una crisi che stabilisce dei rapporti di amicizia o almeno di fine delle ostilità tra i ragazzi coinvolti. La regista, per quanto il proprio punta di vista sia riconoscibile, dà allo spettatore molti spunti su cui costruire la propria interpretazione del film.

Molto più sfumato e meno focalizzato il rapporto tra genitori e figli (e quindi tutta la seconda parte della pellicola, in cui viene esplorato questo tema) in quanto le dinamiche psicologiche all’interno delle due famiglia non vengono mai rese esplicite. Generalmente apprezzerei questa scelta ma nel caso in questione diventa un ostacolo per la comprensione delle motivazioni dei singoli personaggi, soprattutto se si vede la seconda parte come diretta conseguenza della prima. A calcare questa differenza di prospettiva è poi lo stile di ripresa: simile a quello dettato dal Dogma di Lars von Trier all’inizio, con zoomate veloci, camera a mano, movimenti improvvisi, fremiti, anche se bisogna dire che la fotografia è molto curata; più improntata ad una grammatica cinematografica classica mano a mano che ci si avvicina al finale.

Il finale tra l’altro costituisce la vera delusione del film, per il resto molto buono,e consigliato, a partire dagli attori e dalla loro direzione, non dimenticando la sceneggiatura di ferro: il modo sbrigativo, buonista, un po’ hollywoodiano in cui tutti i nodi vengono al petto non rende giustizia ad un film che per il resto della sua durata fa riflettere e interroga le coscienze degli spettatori.

Scritto da Style24.it Unit

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