Il finale di Lost: MacGuffin, temi filosofici e orsi polari

Lo ammetto, ho smesso di seguire Lost verso la metà della seconda stagione. Non so, dunque, cosa sia successo esattamente in questi anni. Ho però captato notizie qua e là, ed ho osservato con moderato interesse la valanga di commenti riversati sul web dai fan, buona parte dei quali delusi dal Gran Finale.

E' quasi sempre così, in occasione dei grandi eventi: aspettative altissime e poi – puff! – cocenti delusioni.

Un prodotto come Lost, a parer mio, non poteva finire diversamente, data l'impostazione.

Lost, infatti, ha messo fin da subito in discussione uno dei capisaldi della cultura americana, ovvero l’adagio What you see is what you get (ciò che vedi è ciò che hai), stravolgendolo completamente. In Lost, infatti, niente è come sembra. Niente e nessuno. What you see is NOT what you get, insomma. Episodio dopo episodio vengono alla luce segreti e misteri sempre più intricati riguardanti sia il luogo dove si muovono i protagonisti, ovvero l’isola, sia i protagonisti stessi, ognuno con una propria indole ed un proprio (in molti casi oscuro) passato.

Per quel che concerne i richiami letterari o culturali, guardando Lost il tutto m’è apparso come un grande esempio di cross-over. Il cross-over, come forse saprete, è la tendenza a mescolare idee differenti per ottenere un qualcosa di nuovo. Nella sola prima stagione ho notato almeno cinque strizzate d’occhio ad opere passate e presenti, ovvero: L’Isola Misteriosa di J.Verne, L’Isola del Dottor Moreau di H.G. Wells, L’Ombra dello Scorpione di S.King, Robinson Crusoe di D.Defoe, Il Signore delle Mosche di W.Golding.

Con queste premesse, si comprende quanto Lost fosse complesso. Un fenomenale esempio di MacGuffin televisivo, direbbe il buon Hitchcock. Da quel che ho capito, andando avanti lo è divenuto ancor di più. Era difficile pensare, dunque, che la serie riuscisse a mantenere le promesse fatte a milioni d'appassionati. I miei dubbi, nello specifico, hanno sempre riguardato la tenuta di un telefilm del genere.

Lost si è basato fin da subito sullo stravolgimento delle certezze acquisite, sul repentino capovolgimento di prospettiva, sul coup de thèatre, sull’evento imprevisto, sull’inaspettato, oltre che sui segreti custoditi gelosamente dai protagonisti.
La domanda, ad un certo punto, è sorta spontanea: per quanto possono durare gli autori senza incartarsi irrimediabilmente? Ovverosia, quanto ci mette un telefilm a divenire da appassionante a contraddittorio e/o confusionario, una volta svanito l’effetto-sorpresa?
Come abbiamo avuto modo di osservare, nel corso delle ultime stagioni parte dei fan si è sentita tradita o presa in giro a causa di incongruenze, ridondanze, personaggi ed eventi lasciati in sospeso. Proprio come spesso accade nella vita reale, ogni qualvolta si è riusciti ad ottenere una risposta, questa non si è rivelata altro che la fonte di ulteriori, inquietanti domande.
Presumibilmente, però, la risposta, lo scopo, in una serie come Lost, non è realmente importante. Il bello di un romanzo d’avventura, a ben vedere, è la ricerca, il viaggio in sé stesso. Nel Gordon Pym di Poe, l’autore non ci fa sapere che fine fa il protagonista: ci dà delle tracce, degli indizi, dei suggerimenti. Sta poi a noi, che abbiamo seguito passo passo le disavventure – e la maturazione – del personaggio principale, immaginare (scegliere?) la fine che riteniamo più adeguata. Un’iniziativa lodevole, che ci riporta ad uno stile di pensiero ad ampio respiro, non assoggettato biecamente all’utilitarismo imperante.

A me, comunque, preme sapere solo una cosa: ma quel povero orso polare, alla fine, cosa ci faceva sull'isola? 🙂

Scritto da Style24.it Unit

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