Festival cinema Roma 2011: I primi della lista, recensione

Pisa, ovvero la città che Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, dopo aver narrato la tragica vicenda del Conte Ugolino, apostrofava con un “Ahi Pisa, vituperio de le genti”. E proprio il borgo della celeberrima torre pendente fa da sfondo alla vicenda racconta in I primi della lista dal regista esordiente Roan Johnson, dal nome straniero ma in realtà pisano doc.

Il film, presentato in una proiezione speciale al Festival Internazionale del Film di Roma, è ambientato durante il turbolento periodo degli anni 70, quando prevaleva l’idealismo e gli ideali rivoluzionari si credevano ancora realizzabili concretamente. È questo il retroterra entro cui si svolge la vicenda, tratta da una storia vera (quasi una leggenda), che vede protagonisti il cantante Pino Masi (Claudio Santamaria) e i due malcapitati Renzo Lulli e Fabio Gismondi (gli esordienti Francesco Turbanti e Paolo Cioni).

Scomparsi per molti giorni da Pisa, i tre vengono ritrovati in un paesino al confine con l’Austria, Paese al quale avevano chiesto asilo politico. Il motivo? Il Masi, noto esponente della canzone di protesta e grande paranoico, viene convinto dell’imminente preparazione di un colpo di stato fascista in Italia e organizza pertanto una fuga improvvisa verso l’estero: in quanto musicista egli si crede infatti tra i famigerati primi della lista di un’ipotetica lista di proscrizione politica.

Ad accompagnarlo, e qui sta l’elemento ironico del film, due studenti alle prime armi che inizialmente accettano come vangelo le parole del loro instabile compagno, rafforzate dalla presenza massiccia di militari per la strada, per poi venire divorati dai dubbi mano a mano che la matassa si dipana, fino alla rivelazione finale della loro imbecillità.

Merito maggiore della messa in scena del film è quello della levità generale con cui viene affrontata una situazione altrimenti grottesca: la regia, per quanto a volte zoppicante nelle fasi di raccordo e con qualche problemino di ritmo narrativo in fase montaggio, riesce a mantenere desta l’attenzione su un gruppo di attori convincenti, molto affiatati e in parte (per quanto a volte si dubiti dell’accento di Santamaria).

E già, l’accento. Arriviamo alle note dolenti: il guaio principale del film è quello di basarsi su un’unica idea ripetuta fino alla nausea, ovvero la paranoia del Masi e il suo rapporto-scontro con una realtà terribilmente pacifica e priva di pericoli. A speziare un po’ il tutto interviene il tipico umorismo toscano e il dialetto pisano, che strappano qualche naturale risata per via dell’innata simpatia che desta il vernacolo.

Rimane il fatto che la trama, se la si spoglia dalle battute più gustoso, è piuttosto esile e non dà troppo spazio all’approfondimento dei caratteri dei tre protagonisti. I rivoluzionari in potenza sono delle macchiette che acquistano una dignità da veri e propri personaggi solo in determinati momenti, tornando poi ad essere delle (più che buone) macchiette non appena termina quell’istante particolare.

Dispiace sopratutto per la dispersione della carica satirico-sociale-politica del film, sprecata in estemporanee battute che, almeno personalmente, ricordano le profezie ormai avveratesi di dantesca memoria: è facile, troppo facile mettere in parallelo lo spettro della fine della democrazia italiana con l’attuale situazione di crisi in cui si trova il nostro Paese. Ci si fida un po’ troppo di un’implicita evidenza, quando un maggiore sviluppo in fase di scrittura (di situazioni e personaggi), avrebbe potuto rendere più puntuali e precisi questi paragoni.

A conti fatti il film è un buon inizio per un debuttante alla regia: diverte molto ma, per alcuni difetti sopra esposti, non riesce del tutto ad avvincere lo spettatore. Come gag seriale all’interno di un programma televisivo sarebbe stato favoloso; risulta però esserlo un po’ meno come lungometraggio cinematografico. Nel frattempo segniamoci il nome di Roan Johnson, sicuramente lo sentiremo ancora.  

Scritto da Style24.it Unit

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