I media, e non solo quelli italiani se si pensa ai tabloid inglesi, hanno giocato a lungo con il personaggio di Amanda Knox. La bellezza della ragazza, la sua giovane età, il fatto di essere americana, la sua esuberanza, erano tutti elementi ghiotti per costruire l'immagine di una dark lady, di una giovane perduta spietata mangiatrice di uomini. Insomma di un'antieroina da romanzetto pulp di serie B perfetta per solleticare la morbosità del pubblico e vendere copie di giornali.
Adesso che Amanda, e il suo ex ragazzo Raffaele Sollecito descritto ovviamente come succube di quest'ultima, sono stati condannati a 26 e 25 anni di carcere, con giudici e giuria non si sa quanto condizionati dal vaneggio televisivo, sembra cominciato il pianto del coccodrillo dei media italiani. Soprattutto sul piccolo schermo, dove forse esiste anche una certa sensibilità alle reazioni d'oltreoceano, si affollano esperti e giornalisti innocentisti. Prima chissà dove li avevano nascosti.
Il punto è che i resoconti favorevoli alla difesa dei due ragazzi appaiono sotto molti punti di vista ben più convincenti della tesi accusatoria. Qua si sono condannate due persone a un quarto di secolo di reclusione sulla base di una manciata di indizi contraddittori e neppure certi. L'accusa non è stata in grado di individuare un movente credibile, di spiegare che rapporti intercorressero tra Amanda, Raffaele e Rudy Guede (l'altro presunto assassino) e come se non bastasse ci sono dubbi pure sull'arma del delitto. Tutto l'impianto accusatorio si regge su piccoli campioni di Dna trovati su un coltello e sul reggiseno della vittima.
Insomma, ancora una volta si avverte la necessità di avviare un serio dibattito sull'uso e la validità delle prove scientifiche, perché tanto gli inquirenti che l'opinione pubblica sembrano ipnotizzati da una sorta di sindrome CSI, che porta a credere che le prove scientifiche costituiscano la chiave di ogni mistero e la soluzione inconfutabile di ogni delitto. Ma nella realtà, che è sempre un po' più complessa dei telefilm, le prove della polizia scientifica non portano sempre alla verità e certamente non parlano da sole: devono essere interpretate e soprattutto si deve essere più che certi della loro corretta valutazione e analisi.
E in Italia, a giudicare anche dai più recenti casi di cronaca nera, le perplessità sul lavoro della scientifica appaiono giustificate: i nostri poliziotti non sembrano neppure lontani parenti degli efficientissimi esperti delle serie tv americane. Tanto per fare un esempio, capita di vedere – nel video girato dalla polizia sulla scena del delitto di Perugia – una donna in divisa che raccoglie un capello di Meredith con i suoi capelli sciolti, quando qualunque idiota che abbia visto anche una sola puntata di CSI sa che in questo modo il campione può essere irrimediabilmente contaminato. Ma a parte gli aneddoti, molti esperti – non solo americani – avanzano seri dubbi sul lavoro degli inquirenti e sulle prove fornite a sostegno dell'accusa. Elizabeth A. Johnson, una delle biologhe forensi più famose del mondo, è lapidaria: «Non è stata presentata nessuna prova scientifica credibile».
Si possono condannare due persone su queste basi? In dubio pro reo, dicevano i latini. E se è vero che il diritto romano costituisce le fondamenta di tutta la nostra civiltà giuridica, oggi Amanda e Raffaele dovrebbero essere fuori, se non altro, come si diceva un tempo, per insufficienza di prove. Perché meglio un colpevole fuori che un innocente dentro, sempre.