Maternità uguale felicità? La regista ci mostra che non sempre è così
Arrivata al quarto lungometraggio, la regista Alina Marazzi si confronta per la prima volta con un film che include in sé elementi di finzione narrativa compiuta, garantita dalla presenza di due attrici professioniste come Charlotte Rampling e Elena Radoninich.
Tutto parla di te però, questo il titolo della nuova opera della cineasta, non abbandona del tutto l’esperienza documentaristica del passato ma anzi ne fa tesoro, riproponendo la tecnica e accompagnandola e rinforzandola con il ricorso a vecchi filmati casalinghi in Super 8, performance di danza contemporanea, le fotografie artistiche di Simona Ghizzoni e persino un intervento di animazione in stop-motion di Beatrice Pucci. Una congerie di linguaggi differenti allo scopo di raccontare l’indicibile, quell’abisso profondissimo chiamato convenzionalmente depressione post-parto.
La trama del film, che copre l’aspetto narrativo da cui si sviluppa la drammaturgia, prende avvio dal ritorno a casa a Torino di Pauline, etologa con un segreto che si annida nella sua infanzia. Ogni giorno la donna si reca in un Centro maternità di una sua amica, dove raccoglie e studia materiali e testimonianza di madri che hanno subito la triste esperienza di sentirsi svuotate di significato ed emozioni dopo la nascita del figlio.
Nello specifico Pauline, che ascolta in continuazione un nastro su cui è registrata la voce della genitrice scomparsa, si interessa al caso di Emma, una danzatrice che non riesce a empatizzare con il neonato e che teme di non poter tornare a lavorare dopo la gravidanza, sentendosi soffocata dalla responsabilità rappresentata da un altro essere vivente che dipende in tutto e per tutto da lei. Solo la confessione del segreto che tormenta Pauline e che le ha fatto intraprendere questo percorso riuscirà a placare l’affanno esistenziale di Emma.
L’affetto, l’attaccamento, la simbiosi che una madre dovrebbe provare per il proprio figlio è un elemento che nel discorso quotidiano è dato per scontato. È naturale – o almeno così ci è comodo credere – che la creatura cresciuta per nove mesi nel ventre materno non possa essere altro che veicolo, frutto, ricettacolo e latore di amore. Ma, la cronaca nera e gli studi clinici ce lo insegnano, non sempre è così: il cordone ombelicale può infatti divenire un nodo scorsoio per una donna afflitta dall’incommensurabilità dell’evento di cui è stata protagonista, che può lasciarla priva di energie per affrontare l’arduo compito che la attende (e le difficoltà dei primi mesi a partire dalla nascita non devono essere sottovalutate, così come il carico di esasperazione che rischia di far perdere il senso della realtà).
Alina Marazzi tenta di descrivere questa condizione con uno sguardo al tempo stesso carezzevole e lucido, più interessato all’osservazione e all’espressione che alla giustificazione e al giudizio del vissuto di queste donne entrate nel vortice della depressione (di tante vediamo i volti – per una volta su grande schermo delle persone vere! – e ascoltiamo le parole). Ma sopratutto la regista compie un miracolo producendo un’opera di cinema puro che trae il suo significato non dal dipanarsi dagli eventi (la traccia di fiction è forse l’aspetto più debole e meno riuscito, per quanto efficace), ma dalla forza delle immagini e dal montaggio che le collega.
In questa prospettiva la regista, consapevole o meno della natura ibrida del mezzo, dimostra di padroneggiare con maestria gli strumenti del filmaker: non solo si avvale delle interpretazioni molto forti delle sue attrici, ma riesce a fondere con destrezza differenti fonti visivi, creando collegamenti di senso inaspettati ed emotivamente potenti, supportata anche da una colonna sonora elegante e sinuosa (musiche di Dominik Scherrer e i Ronin) che al momento giusto toccando le corde più intime del cuore.
E a tutti coloro che lamentano l’assenza di figure maschili nella pellicola, invero presenti quanto bastano, rispondo con convinzione: finalmente un film davvero femminile! Ce n’era un disperato bisogno.