Oscar 2013 vincitori: considerazioni su Argo, Vita di Pi, Lincoln

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Cinema e politica: perché i premi non sempre sono dati a caso (e nemmeno i voti)

Al cinema come nella vita reale la questione del voto è sempre politica.

Gli Oscar 2013 ce lo hanno dimostrato egregiamente, e il preventivo scoramento che sta velocemente avvolgendo un Paese ridotto allo stremo inciderà una cicatrice che ci porteremo nel cuore per molto tempo.

Ma lasciamo perdere per un attimo l’Italia e concentriamoci su quanto successo negli Stati Uniti, dove un’istituzione fortemente connotata socio-economicamente come L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha decretato la vittoria di alcuni film a discapito di altri.

Niente di particolare, è un evento che puntualmente si ripete ogni anno, se non fosse per l’impressionante incidenza del tema politico in questa edizione degli Oscar.

Snoccioliamo solo alcuni titoli: Django Unchained (il peccato originale della schiavitù), Lincoln (la guerra civile causata dal suddetto peccato), Argo (l’ingerenza degli Stati Uniti nelle decisioni di altri Stati regnanti, con le conseguenze sciagurate del caso), Zero Dark Thirty (come affrontare le suddette conseguenze in maniera drastica e radicale), Re della Terra Selvaggia (apologo fiabesco di un primitivismo quasi post-apocalittico, ecologia non pacificata e rifiuto di un modus vivendi ben preciso), per poi finire con i più innocui, solo nei termini presi in considerazione, Vita di Pi (ecumenismo spirituale un po’ d’accatto), Amour (durissimo ritratto di fine vita, ode all’amore coniuguale anche nelle difficoltà più ardue) e quindi Les Misérables (la ballata melodrammatica dei poveri di spirito di Victor Hugo, con velleità rivoluzionare neutralizzate dalla distanza storico/geografica).

Il lato positivo fa storia a sé nel suo essere una commedia feel good.

Chi è andato a vincere e perché. Argo ha conquistato la statuetta per il miglior film più un paio di premi tecnici (montaggio e sceneggiatura). Non ci stupiamo, perché la pur presente critica alla politica estera americana nella pellicola di Ben Affleck è soggiogata da un meccanismo narrativo precisissima, risultato di un fine di un lavoro da orologiaio.

Grande cinema, senz’altro, ma l’empatia creata tra spettatori e protagonisti alla fine ricrea il noto schieramento dei buoni contro i cattivi (dove i primi sono gli statunitensi che vogliono scappare, quelli che li vogliono aiutare e quelli che li aiutano, mentre i cattivi sono gli iraniani fanatici). Il regista non è un incosciente, lo si nota all’inizio del film, ma le ambizioni della sua opera non si indirizzano verso il raggiungimento della consapevolezza storica da parte del pubblico, preferendo l’incanto e la suspence.

Una sorta di autoassoluzione oppiacea, insomma. Ci stupiamo del suo successo?

Proviamo allora a confrontarlo con l’ignorato exploit della Bigelow, dedicato alla caccia all’uomo che avrebbe tolto di mezzo il terrorista più pericoloso del mondo, Osama Bin Laden. A leggerlo superficialmente potrebbe sembrare sia un monumento alla potenza e al coraggio americani, ma anche una descrizione degli orrori e dei compromessi della guerra al terrore. Il finale però ci rivela forse il vero significato del film della regista: nello sguardo perso di Maya, lo sguardo attraverso il quale abbiamo vissuto quest’odissea, questo salto nel buio, scorgiamo lo stesso smarrimento e la stessa disperazione di un Paese che ha preferito dedicarsi anima e corpo a una missione di odio piuttosto che di ricostruzione delle proprie fondamenta.

Un Paese forse senza futuro. Di certo non una prospettiva esaltante che possa venire premiata dall’Academy.

Anche l’atto di accusa di Tarantino (premiato grazie a una sceneggiatura traballante e invece snobbato per il trofeo alla regia) avrebbe la stessa carica dirompente nel ricordare all’America le proprie colpe: non solo quella plateale della schiavitù, ma anche l’unica rivolta attuabile contro di questa, ovvero l’adozione degli stessi metodi violenti e omicidi dei bianchi allo scopo del raggiungimento della libertà.

Il finale surreale e assurdo, allora, che in un certo senso depotenzia un discorso messo non sempre a fuoco dal regista, rischia di arrivare troppo tardi per commentare l’impossibilità di tale riscatto sanguinoso. Bocciatura per le ragioni sbagliate, quindi.

Più semplice invece analizzare Lincoln, il film di Spielberg dedicato alla nobile missione del Presidente Abraham di risolvere la questione dello schiavismo prima della fine della guerra civile, attraverso il non troppo nobile percorso costituito da corruzione, inganno, compromesso.

Un ritratto senz’altro agiografico, ma non privo di ombre e di un’atmosfera crepuscolare, se non proprio cimiteriale, che non deve essere andato troppo a genio all’Academy, la quale ha allora puntato tutto su Vita di Pi, vincitore morale della serata grazie al premio alla regia affidato a Ang Lee.

Un film che predica il valore della vita, da affermare contro ogni difficoltà e ogni ostacolo, persino dinanzi agli aspetti più orribili dell’animo umano.

Una parabola consolatoria, nonostante tutto, priva di eccessive asperità, anche grazie a un finale attaccato con lo sputo, che si imbeve di una spiritualità newage dalle pretese universali: ideologicamente una pappetta da digerire con grande facilità, che avrà entusiasmato i giudici meno pretenziosi.

Abbiamo quindi capito che agli americani piace assolversi dalle proprie responsabilità, sia che questi coinvolgano il proprio passato, il proprio Paese o il mondo intero. Meglio non sbirciare nell’abisso, far finta di niente e tirare avanti come se ogni istante fosse isolato dal precedente.

Un po’ come hanno scelto di fare gli italiani, che immemori del passato, hanno nuovamente accordato fiducia al responsabile di una disgrazia, perdonando a se stessi (consciamente o meno) la loro complicità nello scavo della loro tomba, prima, e poi nel successivo salto in questa. Una caduta che non accenna a fermarsi. 

Foto: Getty Images