Il film che ha commosso ed entusiasmato la Francia arriva nelle sale italiane
La vita di Adele, il film che ha trionfato a Cannes aggiudicandosi la Palma d’oro come migliore opera in concorso, arriva nelle sale italiane portandosi dietro una serie di pregiudizi e gli strascichi di alcune polemiche tra regista e attrici che hanno contribuito a distogliere l’attenzione del prodotto filmico stesso.
Prima di trattare della pellicola nello specifico, dunque, può essere d’aiuto fare chiarezza su alcuni punti.
La vita di Adele non è un film gay, per quanto un’etichetta del genere voglia dire tutto e niente. Le protagoniste sono sì omosessuali (ma si potrebbe discutere sull’orientamento di Adèle – e il possibile avvio di un discorso a posteriori è un punto a favore dell’opera), ma il regista Abdellatif Kechiche con intelligenza decide di lasciare sullo sfondo la questione, prendendo il dato come uno spunto per andare a parare da tutt’altra parte.
Anche se, come i più sapranno, lo sfondo di un’opera narrativa molto spesso è quasi importante di quanto viene detto o fatto dire esplicitamente da narratore o personaggi.
Le lunghe, estenuanti, intense e per nulla pudiche scene di sesso, poi, hanno poco a che vedere con la pornografia. O con la “poesia” al cinema. Costituiscono invece dei momenti molto importanti per comprendere l’entità del rapporto tra Adèle ed Emma, le due protagoniste, e per apprezzare la simbiosi e l’intesa totale che le lega dal punto di vista fisico ed emotivo.
Giungiamo così a rispondere alla domanda che sarà emersa da queste prime parole: “Ma allora se non è pornografia e non è un film gay, cosa sono questi Capitoli 1 e 2 di La vita di Adele?” Semplicemente una delle più fedeli e laceranti descrizioni dell’esperienza dell’innamoramento, della vertigine e dell’estasi fisica dell’amore (osservato nelle sue manifestazioni più intime ed epidermiche), nonché dei profondi sconquassamenti e mutamenti che le difficoltà connesse comportano.
Kechiche, insieme alle (apparentemente) maltrattate Lea Seydoux e Adèle Exarchopoulos, esce a testa alta dall’impresa di restituire con assoluto realismo la vicenda sentimentale che racconta, fino ad arrivare a sprazzi di verità, intesa come aderenza totale a un momento della vita dello spiriti di ognuno. Del tutto adeguata quindi la decisione della giuria del Festival francese di attribuire il premio non solo al cineasta ma anche alle due attrici, vere e proprie co-creatrici del film e autrici di una prova attoriale, sopratutto la Exarchopoulos, che ha pochi uguali nella storia del cinema per dedizione e risultati.
Tratta piuttosto liberamente dal fumetto Le bleu est une couleur chaude di Julie Maroh, l’opera racconta in modo frammentario della crescita dell’inquieta quindicenne Adéle. Una grande passione per la lettura e il vago desiderio di divenire insegnante, facciamo la conoscenza della ragazza in un momento peculiare in cui si va in cerca di qualcosa senza sapere ancora qual è l’oggetto da noi tanto agognato.
Impegnatasi con un ragazzo più su spinta delle amiche che per propria volontà e scontratasi con i primi turbamenti causatele da una coetanea dello stesso sesso, Adèle rimane folgorata sulla via – letteralmente – da una misteriosa ragazza dai capelli blu.
Il ricordo dell’incontro arriverà persino a disturbare il suo sonno e sarà quasi per magia o forse a causa del destino che le due si incontreranno nuovamente in un bar, momento a partire dal quale non potranno più fare a meno l’una dell’altra.
Il regista, come già accennato, decide di strutturare la storia in un modo che potremmo definire metonimico: bandita la continuità temporale degli eventi, lo spettatore passa da una fase all’altra della vita attraverso robuste e decise ellissi (ignorato del tutto il possibile coming-out di Adèle) con l’effetto di una concentrazione esclusiva su alcune scene dal carattere rivelatorio.
Verrebbe da dire che sono due le storie d’amore nel film: quella di Adèle e di Emma e l’invaghimento di Kechiche per la sua creatura, di cui viene esplorato ogni singolo. Il cineasta di origini tunisine sembra aver trovato il suo alter-ego, un po’ come avvenne per François Truffaut e Antoine Doinel, tanto da non lasciarlo mai solo per un istante: la ragazza infatti è sempre tallonata da una macchina da presa, inquadrata con piani strettissimi che ne accarezzano il viso e il corpo, vero e proprio punto focale del film.
Se c’è infatti un tema che emerge dalle tre ore – che scorrono come una – è proprio quello dell’impossibilità di districare il viluppo di razionalità, sentimenti e feroce sensualità da cui è formata l’esperienza dell’amore. È un mistero di cui La vita di Adele si fa carico, quasi come una laicissima santa, e di cui speriamo possano esserci nuovi capitoli.