La grande bellezza: trailer trama recensione del film di Sorrentino

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Il nostro parere sul film che ha diviso la critica al Festival del cinema

Presentato in anteprima al Festival di Cannes di quest’anno, dove è in concorso, l’ultimo film di Paolo Sorrentino La grande bellezza segna il ritorno dell’autore a una produzione italiana dopo il passo falso dello statunitense This Must Be the Place. 

In effetti la pellicola, accolta da lunghi applausi ma anche contestata dalla stampa francese, è davvero un oggetto artistico che ha l’ambizione, magari anche la presunzione, di dire qualcosa di significativo sullo stato attuale del Paese e sopratutto sulla sua decadenza (come in molti hanno implicitamente affermato con un appropriato paragone con La dolce vita e 8½ di Fellini).

Quella che si vede nel film ambientato a Roma è una capitale da fine impero, decadente e marcescente, impegnata in rozzi e sfrenati baccanali durante i quali sfila il corteo della cultura nostrana (bassa, alta, para-televisiva o radical-chic non ha importanza perché non vi è più differenza), spossata e obesa dopo l’abbuffata post-bellica, in attesa solo di una fine che tarda a giungere e che viene invocata dalle fiammate di feste danzanti ad alto tasso di coatteria.

Il re dei party romani, colui che conosce tutti quelli che contano e che da tutti è conosciuto, è Jep Gambardella, l’ennesimo personaggio larger than life della filmografia sorrentiniana: sopravvissuto a se stesso e al successo del suo unico romanzo L’apparato umano, pubblicato ormai una vita fa, il sessantenne giornalista viveur, mondano di professione, attraversa la propria esistenza con lo sguardo di chi ha visto tutto, persino troppo, rassicurato solo da un cinismo tradito però da un bagliore che affiora all’apparire della tanto agognata bellezza.

Perché il contraltare della rassegnazione di Jep, incarnata dal solito impeccabile Toni Servillo (una sicurezza la sua prestazione, forse persino in negativo), è l’incanto di cui è capace una città che James Joyce associava a “un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna”. Un cadavere dalle cui ferite aperte, dalla cui putrefazione, dalla cui corruzione fisica e morale talvolta germogliano fiori dai colori lussureggianti, vitali e salvifici: siano essi gli scorci mozzafiato di una Roma notturna e segreta, o soleggiata e monumentale, la visione di una suora intenta a raccogliere arance, il sorriso di una ragazzina, un incontro imprevisto con una donna di classe o la scoperta dell’esistenza di “due brave persone”.

Sono le piccole epifanie che bilanciano l’inerzia con cui va avanti Jep in un mondo che prolifera sulle proprie rovine, in cui le velleità artistiche nascondono incapacità e mancanza di talento, dove “il vecchio è sempre meglio del nuovo” e non si può fare più nulla se non comparire, nel quale le prostitute si esibiscono come su un palcoscenico e sui terrazzini buoni si tengono discorsi sui massimi sistemi in cui ci si raccontano pietose menzogne per non guardare al proprio disfacimento e fallimento.

Una sorta di afflato spirituale, quasi mistico, pervade la prima parte della pellicola, cui contribuiscono le raffinate musiche (onnipresenti, va detto) e i ricercati movimenti di macchina avvolgenti e liquidi e una fotografia abbacinante (merito del direttore della fotografia Luca Bigazzi, collaboratore abituale), in grado di creare un flusso audiovisivo non dissimile dal caratteristico linguaggio di Terrence Malick, richiamato anche per quanto riguarda certe atmosfere del film. Si tratta però di una spiritualità immanente, confinata alla sfera terrena, che trae la propria ispirazione e il proprio canto da una matericità fatta di corpi e pietra, segni e figure di un presente rischiarato di barlumi di splendore e di un passato glorioso ma irrecuperabile.

Un poema sinfonico: così si potrebbe descrivere la prima ora dell’opera di Sorrentino, che si snoda sinuosa e avvincente, nonostante manchi paurosamente di misura e di un ritmo controllato. Ogni sequenza è infatti girata come se fosse una scena madre, in uno sfoggio di virtuosismo spesso fine a se stesso (il concerto di David Byrne nel film precedente ne è l’esempio ideale). Eppure La grande bellezza potrebbe essere considerato ugualmente una pietra di paragone per il cinema italiano contemporaneo, in virtù del coraggio e del desiderio di sperimentare del suo creatore, se non fosse che proprio dalla peggiore tradizione tricolore è guidata la seconda parte.

Iniziano infatti a piovere, anzi a grandinare, i contenuti, nella forma di personaggi che incarnano degli idealtipi e delle piccole morali – l’amico impersonato da Carlo Verdone, in tutto e per tutto se stesso, e la sorprendente spogliarellista verace Sabrina Ferilli -, nella sfilza di frasi a effetti pronunciate da Jep, nella figura pur affascinante di Suor Maria e di un clero gozzovigliante, nonché in alcune metafore insistite, francamente goffe e risapute.

La sceneggiatura è lo scoglio contro cui si schianta l’ambiziosa navigazione del regista: lo script non riesce a evitare il naufragio dell’ardita ed elegante composizione musicale su una serie di note banali che ci educono sulla vita che passa, la vecchiaia che ingoia tutto con il suo incedere, il cupio dissolvi della noia e dell’inconcludenza di chi, nel mondo, non fa nulla per gli altri e nemmeno per se stesso.

È come se a un certo punto l’autore di Il divo (dove succedeva la stessa cosa) perdesse la fiducia nel proprio pubblico e invece di mostrargli la sua visione lo costringesse ad ascoltare un estenuante monologo composto da affermazioni sentenziose e anodine, vizio costante di Sorrentino. “La povertà non la si può raccontare, si vive”, bisbiglia la minuscola suora-quasi-santa ospite di Jep: allo stesso modo la (ricerca / maliconia della) bellezza dovrebbe essere un’esperienza pura e non una serie di argomentazioni e un accrocchio di esempi pedagogici.

Quando sul finale Gambardella decide di dare seguito a L’apparato umano in cuor nostro speriamo che il libro sarà un testo emozionante e fitto di pagine memorabili al di là del bello bellissimo stile e della fine finissima calligrafia.