Un piccolo film che racchiude tre variazioni sul tema
Ancora poco conosciuto in Italia, Hong Sang-soo fa parte di quell’ondata di cineasti sudcoreani che sul finire degli anni ’90 si imposero all’attenzione della critica internazionale.
Il nostro in realtà è sempre stato tra i protagonisti più defilati di quel movimento, a causa della timidezza e minore esuberanza dei suoi piccoli film, che per molti versi fanno tesoro della lezione di libertà radicale offerta dalla Nouvelle Vague francese.
Il riferimento più immediatamente riconoscibile nel cinema di Hong è infatti Eric Rohmer. Come per l’autore de Il raggio verde, anche le opere del coreano, per questo di difficile promozione e commercializzazione, sono incentrate sui molti dialoghi e sui personaggi, con azioni e trame sentimentali minimali; solo in qualche caso queste sono rese più dinamiche da variazioni interne, proprio come accade nel film In Another Country, presentato a Cannes.
Protagonista assoluta della pellicola è la magnifica Isabelle Huppert, in un ruolo insieme surreale e iper-realistico (in realtà i due concetti non sono poi così distanti l’uno dall’altro). L’aneddotica vuole che l’attrice francese abbia accettato la parte dopo una conversazione con il regista, nonostante al tempo lo script non fosse ancora stato redatto e poi ogni giorno sul set le venissero consegnate poche pagine relative alle sequenze da girare al momento.
Frutto quindi di molta improvvisazione articolata su più livelli, In Another Country raccoglie in sé tre variazioni sul tema della visita di uno straniero in un Paese sconosciuto. Il tris di storie, che differiscono l’una dall’altra per piccoli ma significativi dettagli, parte sempre dall’arrivo della Huppert in una pensioncina sita a Mohang, un’anonima quanto scialba località balneare.
Accompagnata o da sola, la donna si trova ad avere a che fare con amanti, corteggiatori, vecchi e nuovi amici e conoscenze occasionali, senza che succeda qualcosa di realmente memorabile in questo lasso di tempo.
Si tratta della vita di tutti i giorni, colta in un momento piuttosto banale e privo di emozioni, per di più in un contesto straniante a causa della difficoltà di comunicazione con gli abitanti del luogo (l’inglese stentato la fa da padrona) e dalla peculiare atmosfera sospesa e impalpabile tipica del periodo vacanziero.
Hong Sang-soo gira con molta grazia e leggerezza, con inquadrature che seguono quasi per intero le azioni più elementari dei personaggi, come a voler restituire la sensazione di noia e quotidianità in cui sono immersi.
Sono numerosi i rimandi e le interconnessioni tra le sequenze, ma come già detto si tratta solo di un gioco delle variabili, che non produce e non vuole arrivare ad alcuna conclusione.
Allo stesso modo le storie raccontate non pervengono a un risultato narrativo vero e proprio: sembra che a guidare la mano del regista non sia tanto il desiderio di esplorare una tematica o di lanciare un messaggio, quanto invece il puro e semplice piacere della narrazione, all’insegna del “e ora vediamo cosa succede se cambiamo questi elementi”.
Allo spettatore non resta che accettare questa premessa e godersi gli innumerevoli equivoci e le scenette imbarazzanti e curiose di cui è costellato il film, altrimenti potrebbe trovarsi dinanzi a un’opera apparentemente inconsistente e del tutto innocua (parere ssolutamente legittimo, aggiungeremmo). Non capita però tutti i giorni di assistere a una performance così sciolta, scanzonata e leggiadra della solitamente tragica – nell’accezione migliore del termine – Huppert.