Se n’è andato ieri sera, nella Clinica Columbus di Milano dove era stato ricoverato dopo che negli ultimi giorni le sue condizioni di salute erano peggiorate.
Un cancro lo ha portato via a 77 anni, ma la figura di Enzo Jannacci è ormai una cosa sola con la città in cui è nato nel 1935 e che ha sempre amato e descritto nei suoi brani, celebrando le storie ridicole e commoventi allo stesso tempo dei milanesi più umili, gli ultimi di cui si prendeva cura nell’esercizio della sua “vera” professione, quella medica (era infatti cardiologo).
Il saluto più bello e tempestivo è stato quello di Fabio Fazio, che su Twitter, non potendo esprimersi al meglio, ha regalato una splendida sintesi del genio e del valore umano di Jannacci:
“Enzo jannacci era un genio.
Le sue parole che non riuscivano a star dietro ai suoi pensieri. La sua poesia ha inventato un mondo bellissimo.“
“Anche se poteva sembrare che non si capisse niente, nessuno è mai stato tanto chiaro, preciso e sincero come lui: Enzo Jannacci.“
Vengo anch’io, no tu no, E la vita, la vita, El portava i scarp del tennis, Vincenzina e la fabbrica, Giovanni telegrafista, Mexico e nuvole: sono solo alcune delle canzone che sono rimaste indelebili nella coscienza collettiva e che hanno generato senza volerlo modi di dire ed espressioni comunemente utilizzate.
Perché Jannacci è stato uno dei grandi cantautori del secondo dopoguerra italiano: grazie a un’ironia stralunata, vicina alle modalità del teatro canzone e del cabaret (un sodalizio di 40 anni lo ha unito al grande amico Giorgio Gaber, quasi un fratello), raccontava storie inizialmente quasi comiche ma che presto si rivelavano delle piccole miniature di una realtà osservata con precisione e partecipazione.
Quelli che, il brano da cui avrebbe preso il titolo la famosa trasmissione calcistica di Fazio, infatti non è altro che un accurato sfilata di tipi italiani, disegnati con l’abilità di un pittore, la sintesi di un comico e la verità di un antropologo dall’animo artistico.
Sperimentatore legato al jazz, utilizzava il dialetto milanese come fosse un metronomo linguistico, storpiando e creando nuove parole alla maniera di un novello Dante cantore della nebbia meneghina. Non caso, a questo proposito, il suo maestro riconosciuto è stato Dario Fo.
Ma Jannacci non si limitò solo alla carriera musicale. Alcuni registi cinematografici lo vollero come protagonista di film importanti della loro carriera, colpiti da quella maschera imperscrutabile. Un solo esempio: Marco Ferreri in L’udienza ne fece un timido ragazzo del Nord che arrivava a Roma per avere un incontro privato col Papa, in un film dalle atmosfere a metà tra Franz Kafka e Dino Buzzati.
Ne La bellezza del somaro, la sua ultima apparizione su grande schermo (quella finale televisiva risale al 2011, ed è un concerto in suo onore organizzato sempre da Fazio), la sua presenza aliena e disturbante di uomo libero da preconcetti e imposizioni mette in crisi i valori borghesi degli altri protagonisti della pellicola.
Cosa che del resto gli riusciva benissimo anche nelle sue canzoni.