Un’opera biografica sulla donna che ha saputo emozionare milioni di persone in tutto il mondo
Il cinema è attratto da sempre dalle vite dei personaggi pubblici che hanno fatto la Storia con la S maiuscola o anche la semplice storia dei costumi.
Politici, regnanti, scienziati, atleti, attori, inventori, musicisti: non esiste una singola categoria che non sia stata catturata dal cinematografo grazie alla magia-illusione delle ombre che si muovono.
Ogni volta che viene prodotto un film biografico (oggi va di moda parlare di biopic) la domanda è sempre la stessa: in che modo si può riassumere la complessità e l’enorme varietà di una vita intera, probabilmente costituita da un susseguirsi di eventi clamorosi e ugualmente importanti?
Questa è la sfida che hanno accettato il regista Oliver Hirschbiegel (La caduta, gli ultimi giorni di Adolf Hitler) e lo sceneggiatore Stephen Jeffreys (The Libertine, l’incredibile esistenza del Marchese Donatien-Alphonse-François de Sade) nel momento in cui hanno data la loro disponibilità a girare Diana – La storia segreta di Lady D.
, opera sul periodo finale della vita della sfortunata donna.
La soluzione trovata, o suggerita dai produttori, ha un che di classico e tradizionale, un artificio che in un certo senso richiama il pretesto narrativo di Quarto Potere (sconfessato in realtà dallo svolgimento del capolavoro stesso di Orson Welles): rileggere e giustificare un’intera esistenza, arrivando persino alla precognizione a posteriori di ciò che è stato prima, attraverso un singolo elemento, in questo caso la poco conosciuta storia d’amore con il chirurgo di origini pachistane Hasnat Khan.
Lasciati dunque ai margini Carlo, la Regina Elisabetta, tutta la famiglia Reale e persino William e Harry, assenti dalla scena ma presenti virtualmente come fantasmi delle responsabilità sociali e personali della principessa triste, la pellicola si concentra quasi unicamente su un’oscura relazione sentimentale con colui che viene definito “l’unico vero amore di Diana Spencer”.
Ci sono allora tutti i presupposti per un grande melodramma fiammeggiante in cui due amanti devono lottare contro il mondo per poter conservare intatta la passione che li lega.
Ci sarebbero tutti, sì, se non fosse che il film prende velocemente e con decisione la strada del fotoromanzo, senza tra l’altro mostrare alcun rimpianto a proposito.
Infatti come nella peggiore delle soap qualsiasi passaggio logico o sfumatura psicologica o implicazione sociale viene appiattita e sacrificata sull’altare delle emozioni e delle lacrime facili. Bandito il realismo o anche la semplice plausibilità nello strutturarsi del rapporto della coppia: cosa che come è ovvio impedisce qualsiasi moto di partecipazione al dramma e di empatia nei confronti dei protagonisti.
Le sequenze si avvicendano di corsa, quasi a dover affastellare velocemente tutti i momenti più conosciuti delle opere pubbliche di Diana. Di ciò risente il tenore del melodramma, lontano dall’onestà e dalla linearità del genere: i personaggi agiscono così come in preda a impulsi improvvisi e scenicamente ingiustificati, a volte arrivando al limite del ridicolo (non mancano pose da tabloid o citazioni poetiche messe in bocca nei momenti più carichi emotivamente).
Come l’amore fiorisce in un istante – ed è tutto un vortice di battutine, risatine imbarazzate e situazioni degne di un telefilm degli anni ’90 – così finisce bruscamente a causa di una pressione mediatica e divergenza di vedute che, per quanto teoricamente verosimili, risultano del tutto aliene e incoerenti rispetto a quanto mostrato nel film, che si limita a far parlare i due di generiche difficoltà senza mai preoccuparsi di mostrarle, e di farvi quindi credere lo spettatore.
A una sceneggiatura non di ferro ma di cartone si aggiungono poi le interpretazioni sopra le righe di Naomi Watts e Naveen Andrews (Lost), e una regia molto televisiva nel suo riprendere un immaginario da rotocalco, alla stregua della peggiore delle fiction italiane (citiamo per esempio l’assalto dei giornalisti girato come se fosse la scena di un thriller), e priva di qualunque personalità, a parte un feticismo per i piedi dell’attrice: tutte sbavature che impediscono all’opera di essere al livello di ambizioni già non troppo elevate in partenza.
Si tralasciano infine considerazioni sul processo di santificazione laica della figura di Lady D., che tra una vedova di guerra, un bambino mutilato e un cieco riesce a infilare un numero impressionante di cambi d’abito. Inutile aspettarsi una qualunque lettura critica e in effetti si ammette che il film mantiene almeno questa promessa.