Amour di Michael Haneke: recensione e trailer del film vincitore a Cannes

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Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno, troviamo in (poche) selezionate sale italiane Amour, del regista austriaco Michael Haneke.

Protagonisti e quasi co-autori, tanto grande è l’importanza degli attori nella messa in scena del film, sono Jean-Louis Trintignant (di anni 81) ed Emmanuelle Riva (85), che interpretano la coppia di lunga data costituita da Georges e Anna (il fatto che siano gli stessi nomi dei personaggi principali delle opere dell’autore conferisce all’operazione una sfumatura quasi archetipica).  

Poche parole da spendere sulla trama di Amour, che potrebbe essere definito come il resoconto realistico ed estremamente dettagliato, fino alla crudeltà più glaciale, della progressivo decadimento della salute di Anna e contemporaneamente degli sforzi di Georges, che sceglie di dedicarsi solitariamente alla preziosa cura degli ultimi mesi di vita della moglie.

Il dolore che si prova guardando il film non è solo “normale” empatia verso i personaggi, identificazione con quella che è una situazione cui prima o poi a tutti tocca assistere o partecipare.

Mentre si osserva Georges muoversi lentamente nell’interno alto-borghese di casa sua, infatti, per un istante viene a cadere la divisione tra attore e personaggio: Haneke molto cinicamente ha voluto attribuire la parte a due interpreti in grande forma artistica piuttosto in là con l’età, la cui fisicità ricorda costantemente allo spettatore le conseguenze dell’implacabile lavoro del tempo.

Angoscia, claustrofobia, soffocamento. Sono le sensazioni che derivano dalla rigorosa e calcolata regia di Haneke. Angoli di ripresa strettissimi, montaggio dal ritmo senile, quasi nessuna concessione alle divagazione, in quanto persino i sogni di Geroges sono degli incubi che lo inchiodano alla tragedia che sta vivendo, e un uso della musica puramente diegetica (brani di pianoforte) che costituisce non un sollievo ma quasi una nuova ferita del cuore di Anne, una volta insegnante e concertista.

Lo sguardo della macchina da presa è poi spietato nel mostrare i momenti più mortificanti dell’agonia della malata, nonché priva di misericordia quando inquadra piccoli istanti di brutalità necessaria, arrivando così a delineare un’atmosfera di afflizione e fatalità ineluttabile.

Lo spettatore più attento allora potrebbe chiedersi il perché del titolo, dov’è quell’Amore che campeggia a caratteri cubitali sulla locandina. Si può definire tale il comportamento solerte ma rassegnato del marito? La silenziosa e tenace testimonianza del disfacimento della compagna di sempre?

Una delle costanti del cinema di Haneke è quella del coinvolgimento diretto del pubblico del film, che viene chiamato a riempire buchi narrativi, dubbi morali, interrogazioni ermeneutiche volutamente creati dalla sceneggiatura e della regia.

All’austriaco non interessa convincere il suo uditorio di qualcosa, ma preferisce provocare in esso una reazione, qualunque essa sia.

Amour allora non lancia alcun messaggio riguardo a un mistero irrisolvibile quale è quello della natura del sentimento ultimo dell’estensione di sé nell’altro, molto diverso e meno facilmente rappresentabile della passione dei sensi o dell’effervescenza dell’innamorato.

La speranza implicita nel film – e da qui deriva anche la sospensione del giudizio di valore sullo stesso – è che sia l’occhio di chi guarda a riconoscere nei gesti pazienti, nella testardaggine di Georges, negli sguardi riconoscenti di Anna quello che comunemente viene chiamato amore.

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